Come un portone che si apre, questa potrebbe essere la prima immagine. Invece, non é così, foto scattata, quasi per caso, quando mi sono voltato un ultimo sguardo. Quando l'oscurità della sera nasconde il grigio delle nubi basse e per le strade non rimane che un alito di vento. Sono sceso, in questa città piccolina, i cui sobborghi anonimi si estendono comunque fin dove arriva l'occhio, dietro facciate ornate di volute barocche, muri incastonati di opere letterarie e teiere, e taverne che nell'oscurità trasmettevano calore. Fino a giungere entro i confini di una piccola repubblica di letterati ed artisti, fatta di una propria costituzione ed un proprio inno. Bastava svoltare per trovare un'altra Vilnius, di strade e cortili dall'aspetto ruvido e trasandato o abitazioni popolari. Aspetti di un'Europa Orientale che sta cambiando ma che, malgrado la velocità, ancora fa i conti con l'ultimo secolo di storia. Travagliato, segnato, si sovrappone ad un altro, non meno burrascoso, fatto di dinastie ed ordini che si contendevano l'Impero, come le rovine di un castello, diroccato su una collina affacciata sul fiume e su una via di ciottoli ed insegne sospese al vento, si sovrappone alla religiosità profonda e palpabile, nei gesti della gente e nei riti differenti.
Questo é il primo luogo in cui mi sono recato a Vilnius. Un edificio senza rilievo, in apparenza, uno direbbe quasi anonimo se non fosse che a ben guardare sulle pietre angolari lungo tutto il perimetro siano scolpiti nomi e date. Nomi, appunto, che non potrebbero dire di più delle ombre che sono, passate daqueste stanze che erano uffici segreti e prigione. Passavana, e sparivano, talvolta nel buio stesso dei sotterranei, talvolta lontano nello sterminato gelo siberiano. Ed allora, la prima cicatrice narrante di questo luogo é una prigione, i documenti raccolti ai piani superiori, ma soprattutto l'opprimente sensazione che si prova scendendo, tra le carceri, i cortili, lo spazio più in basso che era macelleria umana. Questo senso che é storia di un Paese, dramma di un' Europa spezzata a metà, e molto, terribilmente, vicino a quanto accade ancora, dietro l'angolo, oltre un lembo di mare, in ogni angolo oscuro di cui ignoriamo o non guardiamo l'esistenza.
"Our youth was taken away on rafts And froze into ice in the North. Our young much-suffering souls Are wondering through the taiga, homeless, homeless...
Our youth was buried in holes Under the black coal in Vorkuta Our youth perished in a bunker When a hand grenade exploded in our faces..."
"There is no other place in Lithuania which has retained to this day so much of our past, as Trakai. Every foot of land here is related to ancient times. Lithuania has many remains of mounds and castles, but none of them are so close to being Lithuanian as the ruins of the Trakai castle..."
Forse non sarebbe potuto esserci un tempo migliore: un vento gelido che sale dal Baltico, un cielo grigio, nascosto di nuvole piatte, grigie, strato su strato. Forse, non poteva essere che così, quest'atmosfera nordica, queste luci fredde, anche quando si intravede il sole.Si fonde nel verde del paesaggio, intenso e disteso di una campagna piatta e silenziosa, si fonde con le case di legno, qualcuna i tetti ancora in lamiera, e gli attrezzi sparpagliati a fianco delle barche tirate a riva e capovolte, nel cortile di casa. Ondeggiano tremanti giunchi nel lago, quasi ombre nere disegnate a centri concentrici sull'acqua, profili quasi linee che si disegnano da sole su questo cielo desolatamente uguale. Ed é un'atmosfera tremendamente romantica, potente silenzio, solitudine dei luoghi, gelo dei colori. Come in un quadro di un infinito vuoto e abbagliante. Da qualche parte spunterà la sagoma di un castello, e sarà una fortezza inespugnabile, al largo di un'isola, protetta dai giunchi e dal vento, silenziosa anch'essa nella distesa di verde e di ghiaccio.
Un pellegrinaggio, non esattamente. Ma sono salito su un treno che attraversasse la Lituania, per arrivare ad un luogo sperduto. Ultimi chilometri su un autobus dagli interni di legno e la carrozzeria in lamiera. Sono sceso, al ciglio della strada e mi sono incamminato lungo una via laterale. Questo é un luogo di speranza, di forza e di fede. E' un luogo si storia, perché questo é anche un simbolo. E come un viaggio partito da quelle stanze preservate di un vecchio carcere arriva un'eco che sale su questa collina. Infinite, migliaia, e migliaia, di croci infisse nel terreno, legate una sull'altra, ammassate, crollate, piegate e piantate nuovamente nella terra. Non c'é altro che silenzio ed un vento che pare più di un sospiro, tintinnio di qualche corona penzolante dal ramo di una croce. Nomi, promesse e richieste di protezione, ognuna di queste croci é una storia, piccola o grande, semplicemente a seconda della prospettiva, narrata ed abbandonata alla speranza. Su questa collina si spiega tutta la potenza di un rito, il suo significato, che non può che toccare qualche corda nascosta, perché alla fine il messaggio che idealmente sale col vento va oltre il simbolo cristiano e come una benedizione abbraccia chiunque lo voglia accogliere, come "segno di riconciliazione". In un angolo nascosto, una piccola croce di legno, vi ho scritto i nostri nomi e l'ho imiantata nel terreno.
Comentários