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Immagine del redattoreoytis

Un luogo fisico e uno stato mentale senza confini


 



Come un traghettatore sospeso su acque impalpabili, il pescatore aspetta, tende la mano ed accompagna a bordo. La pelle arsa dal sole, le collane allungate sulla camicia sbracata aperta sul petto. Il sole tramonta, e tinge la breve scia lasciata dietro di sé, rasenta il profilo del Bourtzì, curioso isolotto al centro dell'ampia baia di Nauplia, e traccia linee forti e marcate sull'intricato intreccio di bastioni, scale, sale e piani rialzati. Tutti concentrati su un isolotto, di fronte la città che si anima alle luci della sera, di ristoranti aperti che invadono le viuzze, di qualche locale un po' più alla moda, sul lungomare, ad accogliere gli Ateniesi nel fine settimana, sotto l'ombra imponente della fortezza di Palamede. Da qui, ne resta un'eco lontana, soffusa ed attutitada una lingua di mare e dai rimbrotti del peschereccio.

Un'eco lontana dei bambini che si rincorrono al centro della piazza, tra fondi lastricati, edifici veneziani e balconi serrati, negozi aperti e giorno che sembra appena iniziato. Tutto tace la mattina, tra le strade deserte ed i bar coperti di tendoni, ai cui tavoli servono acqua fresca yoghurt e miele e dolci da colmare una giornata intera. Silenzio tra le chiesetta, sparse qua e la, con l'ingresso che si apre davanti all'improvviso, svoltato un vicoletto o ragiunto l'ultimo gradino di un passaggio scalinato. Da queste porte sfugge un alito fresco ed il profumo dell'incenso, il candore della calce all'esterno nasconde scintillanti colori una volta varcata la soglia, come luce improvvisa che si accende dinanzi ed acceca tra ori, figure immobili e dallo sguardo fisso, lanterne sospese nel silenzio del sacro.





Sacra era l'acqua che sgorgava ad Epidauro, al centro del santuario di Asclepio Qui giungevano in cerca di cure pellegrini di tutto il mondo antico. Sullo stesso luogo giungono oggi in religiosa ammirazione turisti e spettatori, perché sul declivio nascosto tra gli alberi, dischiuso su un  panorama che fonde il colore brullo del paesaggio quello accecante del cielo d'estate, si apre uno dei teatri più famosi e perfetti giunti fino a noi. Acustica infallibile e linee disegnate col compasso, dall'alto dove l'ombra di qualche albero é appena raggiungibile, guardando al pacoscenico ogni figura sembra una maschera che irrompe sulla scena e smuove eco di una tradizione antichissima.



Su un'altra collina, in un'altra posizione strategica e si ergono i resti di Micene. Mostrouse e ciclopiche, le mura offuscano quasi quelle di Tirinto, e quasi pare di oltrepassare un confine inviolabile, quando l'architrave sopra lo sguardo, copre il sole già alto e le due figure leonine, nel bassorilievo più antico dell'arte occidentale, appaere minaccioso monito a chi entra in città. A Micene il mito di Agamennone e dei guerrieri achei attraversa la storia, una storia fatta di tradimenti familiari e sangue versato tra padri figli ed amanti e giunge fino a noi alimentandone un altro di mito, quello legato alla scoperta dei tesori della città e della tomba reale, straordinario affondo nel terreno cui si accede attraverso un'apertura imponente. Come imponente rimane una straordianria opera di ingegneria, nascosta sotto le mura della città, la cisterna per la raccolta dell'acqua. Vi si accede attraverso scale scolpite nel terreno verso un cunicolo buio che inghiotte ogni cosa, voragine che non saprai mai dove potrebbe portare, perché continuare per questo non avrebbe senso.

E' in risalita, la strada ormai, verso nord. Da un'opera di ingegneria all'altra, le imponenti vestigia di città antiche e potenti, da Micene a Corinto, lasciano spazio ad epoche diverse.

La prima é proprio a Corinto, dove le terra per millenni é stata scavata alla ricerca di un passaggio nascosto. Qui il peloponneso é diventato isola, nel punto in cui la pietra sprofonda verso il basso mostrando tutte le proprie fratture ed una via é stata aperta al mare. Il canale sembra una stradina lontana, laggiù come se guardassi la moderna città dalla vecchia rocca veneziana che si erge su un imponente blocco calcareo, e le navi non sembrano più che giocattolini. Fa sorridere, ora pensa che qui, con duemila anni d'anticipo, giunse Nerone in persona, giusto dopo aver gareggiato ad Olimpia su un cocchio trainato dal doppio dei cavalli concessi agli avversari, ad iniziare un'opera impossibile smuovendo la terra con la punta di un piccone dorato.

E quasi un modellino sembra questo treno storico, su una linea corta e martoriata che attraverso burroni e gole scoscese si arrampica da Diakofto a Kalavrita, attraverso paesaggi rigogliosi ed incantati. Tra gallerie stratte, cemagliere e ponti sospesi, il treno balza da un costone all'altro per raggiungere quello che fu teatro di uno degli episodi più crudeli del passaggio nazista su questo suolo.



L'ultimo scatto é un ponte, struttura moderna protesa sul mare, tralicci tesi nel vuoto a reggere pesi insostenibili, ad unire una terra che era stata separata. Un ponte già percorso, ma in direzione inversa. Un ponte che questa volta vedrò dal mare, perché il guado sarà via nave. Mentre il sole cala, accende i riflessi scintillanti sull'acqua e lascia alle spalle un altro giorno. Come io, con questi luoghi, che già sono ricordi impressi nell'anima, pensando con malinconia alla strada inversa, quella percorsa solo pochi giorni prima, quando tutto era ancora da scoprire e da amare. Ed il libro aperto sulla prima pagina, dove "la Grecia non é solo un paese, é un luogo fisico e uno stato mentale senza confini".



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