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Tra le campagne di Roma, da Villa Adriana a Villa d'Este



 




Quando sono atterrato non ci avevo fatto caso. E’ stato guardando fuori dal finestrino e scorgendo i profili dei pini marittimi che ho davvero realizzato di essere in Italia e di essere tornato a Roma. In quel profilo, d’improvviso, ho identificato tutto ciò che mi piaceva nel trovarmi lì. Roma fa schifo. Per essere chiari, è una provocazione. Ma è anche una presa di conoscenza dolorosa nell’osservare con gli occhi distaccati di un mezzo straniero quello che è la città: la vergogna delle immondizie, pure in un centro che sicuramente beneficerà del suo status, la condizione pietosa degli autobus che partono per Tivoli, così come per altre destinazioni in periferia, il sali scendi che lo accompagna, ed altre piccole cose che magari saranno solo dettagli pesanti, sono una storpiatura ed uno sfregio ad un passato del quale inappropriatamente ci si fa vanto.



Ho visitato due luoghi belli ed affascinanti in questa domenica romana. Sono giunto a Tivoli, a Villa d’Este, ascoltando madrigali d’epica cortese e note pirotecniche estratte sul pianoforte da mani gigantesche. Tutto ruotava attorno a quei giochi d’acqua, un giardino incantato, così sembra, come spettacolare è la vista che da qui si gode sulla campagna romana. Ho trattenuto il fiato, come il tempo incero che rimaneva sospeso all’orizzonte. E, seguendo decorazioni a grottesca, sala per sala, all’ombra di gesta eroiche e racconti epici, riecheggiavano note di musica e si riaffermava lo smisurato potere dei principi di Roma.


“Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui! Eran rivali, eran di fe’ diversi, e si sentian degli aspri colpi iniqui per tutta la persona anco dolersi; e pur per selve oscure e calli obliqui insieme van senza sospetto aversi, da quattro sproni il destrier punto arriva ove una strada in due si dipartiva…”



“…Vi sono già zone della mia vita simili alle sale spoglie d'un palazzo troppo vasto, che un proprietario decaduto rinuncia a occupare per intero…”


Sono sceso a Villa Adriana. E la sensazione che mi ha preso, in questo labirinto di rovine eleganti che potrebbero benissimo essere un’intera città romana, questo silenzio impresso nei ruderi, riflesso nell’acqua e protetto dai pini, mi è suonata come un’antica narrazione di solitudine. Questo ho pensato, nell’immaginare cosa sorgesse tra questa immensa distesa di ulivi, forse al posto di questi stessi ulivi. Era un silenzio di pace, una luce tranquilla che riscaldava il terreno umido di pioggia. Eppure, attraverso i secoli, mi trasmetteva questo tocco gelido di solitudine.


“…Mi dicevo che è vano sperare, per Atene e per Roma, quell’eternità che non è accordata né gli uomini né alle cose, e che i più saggi tra noi negano persino agli dei. [...] «Natura deficit, fortuna mutatur, deus omnia cernit.» La natura ci tradisce, la fortuna muta, un dio dall'alto guarda ogni cosa. [...] Là dove un tessitore rattopperebbe la sua tela, dove un calcolatore correggerebbe i suoi errori, dove l'artista ritoccherebbe il suo capolavoro ancora imperfetto o appena danneggiato, la natura preferisce ricominciare dall'argilla, dal caos; e questo sperpero è ciò che si chiama l'”ordine delle cose”.”



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