4-5 Giugno 2017
“…I live in a bamboo grove, the sky unseen; The road hither is steep and dangerous; I arrive alone and late. Alone I stand on the mountain top While the clouds gather beneath me. All gloomy and dark is the day; The east wind drifts and god sends down rain. Waiting for the divine one, I forget to go home. The year is late. Who will now bedeck me? …”
(Qu Yuan)
Improvvisamente, viaggiare nel regno del dragone è anche cavalcarne la spina dorsale. Così viene soprannominato questo posto, dove il profilo delle terrazze di riso sono linee di drago in movimento. Vi sono arrivato con l’attesa di un ragazzino che leggeva la Storia Infinita, disegnando con l’immaginazione da lungo tempo quello che poteva essere questo paesaggio modellato dagli uomini e dominato da terra ed acqua. Ci sono luoghi che per motivi più o meno segreti sono impressi dentro di noi, prima che li vediamo, se mai questo accadrà. Questo è uno di quei luoghi. E, sentendo come mi chiamasse, ho continuato ad immaginarlo, colmandomi di aspettative. Per questo motivo non potevo cercare un traguardo migliore di questo viaggio tanto lontano ed in un certo modo vicino, breve ma estremamente intenso.
Queste linee ondeggiano sul cuore, nel silenzio interrotto dalla pioggia che esplode ad intervalli irregolari, tamburellando su foglie di verde, su specchi d’acqua torbidi ed immobili e su sentieri di pietra ripidi quanto scivolosi. Sotto l’acqua, nell’acqua, che mista a fango arriva fino ai polpacci, figure come ombre continuano a muoversi, incuranti del cielo e chini su un lavoro massacrante. Cercano nelle pozze, o ricompattano gli argini, alzando il busto a tratti per salutare me, personaggio fuori da questo tempo, in movimento su quei sentieri per e avventuosi e che per loro sono semplicemente passaggi privilegiati verso casa. Ho spostato con la mano fronde dopo fronde, passato colline e fuso il sudore di un’umidità senza limiti con le lacrime di pioggia che scendevano a tratti. Ho attraversato villaggi nascosti ed incastonati nella terra impregnate d’acqua, dove il sentiero era l’unica strada, e dietro le ampie porte di legno non rimaneva che qualche eco lontana di rumore domestico. Continuo a camminare, seguendo il rumore dell’acqua che fluisce, di terrazza in terrazza, una fontana senza limiti che trabocca senza soluzione di continuità. Sento di scendere sempre più in profondità in questo luogo lontano, in una concezione totalmente diversa del tempo, del giorno, dello spazio, e di immergermi lentamente in questa cultura, spettatore privilegiato, con la delicatezza di un passo che sfiora gli usci dei portoni delle case, le scritte sugli stipiti, i calderoni intravisti sul fuoco e gli oggetti remoti sparsi qua e là, ma soprattutto quello sparuto gruppo di anime che compaiono una ad una ogni tanto lungo il cammino, mi osserva e mi fa percepire che, altrettanto silenziosamente, respira, dietro le ombre dei villaggi e la macchia delle piante, salutadomi con uno sguardo amico e curioso.
E’ buio presto da queste parti, e ci muoviamo alla luce delle torce. Abbiamo mangiato insieme, con il nostro ospite, un uomo curioso e divertente che parla un sacco e comunica soltanto utilizzando il traduttore sul telefonino, seduti ad un tavolo unico, dove ha cercato di soddisfare i gusti di ognuno di noi. Seguiamo il suono del fiume, più forte e distinto rispetto agli infiniti rivoli d’acqua che scorrono ai nostri fianchi, per scendere di un paio di centinaio di metri. Le flebili luci del villaggio scompaiono in fretta alle nostre spalle e, in questa calma immobile di acqua e tenebra, se ne accendono altre, di luci, minuscule e sfuggenti. Credo di non aver mai visto le lucciole, e certamente mai in tale quantità. Puntini minuscoli che si accendono e scompaiono improvvisamente. Tre bambini, figli di una coppia in viaggio da mesi – e questa sarebbe una storia da raccontare a parte – le raccolgono dolcemente in un gioco che ripetono ogni sera e, custodendole nel palmo della mano me le mostrano. In questo gesto, ed in questo momento, c’è una calma soverchiante che come un balsamo accarezza ogni imagine raccolta, anche quelle più crude, e fa sembrare tutto così lontano, a tratti quasi povero di significato. Non riesco a conciliare questo momento con quella routine che rappresenta il mio mondo, a pensare che coesistano, nello stesso istante, e che in un giro d’orologio sarò altrove sapendo che qui tre bambini portati in viaggio dai genitori giocheranno senza paura nell’oscurità. Il mio ospite versa ancora the, così come lo ha raccolto, seguendo il suo rituale e, nella note che avanza, continua a raccontare di se stesso e del suo Paese.
Ho abbandonato questo luogo, scendendo lungo una strada tortuosa che sfiorava il burrone, così come si spalancava dal mio finestrino dell’autobus. Nelle mani tenevo un sacchetto di quei frutti rossi, così dolci, così freschi, di cui da giorni non posso fare a meno. Li ho comprati da una bambina, prima di salire, e voltarmi un ultima volta verso le colline a forma di drago. Vorrei essermi fermato davvero più a lungo, ovunque, ma soprattutto qui. Col viso riflesso sul finestrino, ho ripensato ad un paio di mani, colme di questi frutti, protese in offerta, così come le ho viste qualche giorno prima. Ho un po’ di malinconia, che soltanto il caldo asfissiante che trovo in città mi fa dimenticare con l’attesa di ripartire. E quanto ho vissuto già sembra un riflesso, come un mondo dal quale sento di allontanarmi, ripensando di nuovo alle distanze, che mi immalinconiscono al solo pensiero, ed uno specchio attraverso il quale mi osservo e vedo l’anima tua.
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