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Sostiene Pereira: il mio sguardo su Lisbona


 



Ho sempre immaginato Lisbona attraverso le pagine di Sostiene Pereira, anche perché non immaginavo altro. Mi arrampicavo nel caldo torrido per le stradine dell’Alfama, magari aggrappandomi al famoso tram che affrontava pendenze proibite, sfiorava muri e sferragliava disegnando linee labirintiche, cercando la macelleria ebraica e soprattutto quel cafè Orquidea dove preparavano da mangiare soltanto omelette alle erbe ed al riparo dal sole gustare un bicchiere di limonata gelata. Poi immaginavo Belem, soprattutto quella torre posta nel bel mezzo del Thago, che nemmeno capisci come ci sia capitata, così bianca e decorata da sembrare disegnata con la panna montata, o meglio ancora di quella crema deliziosa consegnata dai gesuiti ad un pasticciere che campava vicino al loro immenso monastero e da allora custodita gelosamente per secoli tra le mura di una cucina. E a poco a poco la vedevo accendersi nell’oscurità, mentre il sole calava ed incendiava il cielo per un ultimo istante ed il corso del fiume si infrangeva mollemente sugli argini e rivelava gli sbarramenti di pietra eretti dall’uomo per arrivare alla torre di giorno nascosti dall’acqua.


Mi vedevo camminare la notte, su viali lastricati e splendenti che attraverso porte imponenti mi conducevano al mare… o alla sua anticamera, almeno, sulla sponda del fiume pronto ad aprirsi nell’oceano. E tornando sui miei passi, mi sentivo girare la testa osservando il moto ondoso immortalato sul Rossio, dal lavoro senza tregua di migliaia di prigionieri chini sotto il sole a lasciare un’anonima traccia del loro passaggio. Allora, guardando l’entrata della stazione, trasformata dalle luci notturne e dalle ombre che quasi volando ne varcano il passaggio, sprofondavo in linee sinuose traboccanti di decorazioni. E il giorno dopo, ansimando, salivo e scendevo i colli della città, attraverso edifici dal fascino decadente, e giunto in cima rabbrividivo alla bellezza del panorama, come rabbrividivo la sera, tra i bastioni del castello, sferzato da un vento freddo da cui le mura merlettate non sapevano difendermi, e rapito guardavo il cielo striato di nuvole colorarsi come in una fiaba. Spingevo lo sguardo in fondo, verso quei ponti protesi nell’orizzonte, sapendo dopo averli attraversati in macchina che da qualche parte si riaggrappavano alla terra, come i personaggi di quella gigante caravella stilizzata, che dorata dal sole radente veleggiava sicura verso l’ignoto.


Infine, la sera, sfiorando il tavolo da cui Pessoa ed i suoi infiniti eteronomi, descriveva il proprio mondo, mi infilavo in uno di quei locali dove si canta il fado… una musica diversa da quello che avevo ascoltato a Coimbra… diversi i protagonisti, diverse le note, diverse le luci, eppure sentivo sempre la sensazione di un mistero non del tutto carpito, come se qualcosa sfuggisse al mio controllo e mi trapassasse la mente, l’anima, e non riuscissi a toccarlo. Ed assaporando un ultimo bicchiere di Porto, attraverso le luci soffuse ed i lumi di candela, guardavo quella ragazza cantare, fasciata di nero ed avvolta in un ampio scialle, volevo vederne la voce, che incredibilmente profonda cantava d’amore e di nostalgia, e la seguivo con lo sguardo quando lasciava il palcoscenico ad un’altra e, nell’ombra dei vicoli del Bairro Alto, tra note suadenti e voci lontane, sfiorava con una carezza il viso di un ragazzo e lo baciava teneramente. Così immaginavo Lisbona… un’ultima sera… prima di voltare le spalle all’oceano, e fare rotta verso casa.


"Sostiene Pereira di averlo conosciuto in un giorno d'estate. Una magnifica giornata d'estate, soleggiata e ventilata, e Lisbona sfavillava. Pare che Pereira stesse in redazione, non sapeva che fare, il direttore era in ferie, lui si trovava nell'imbarazzo di metter su la pagina culturale, perché il "Lisboa" aveva ormai una pagina culturale, e l'avevano affidata a lui. E lui, Pereira, rifletteva sulla morte. Quel bel giorno d'estate, con la brezza atlantica che accarezzava le cime degli alberi e il sole che splendeva, e con una città che scintillava, letteralmente scintillava sotto la sua finestra, e un azzurro, un azzurro mai visto, sostiene Pereira, di un nitore che quasi feriva gli occhi, lui si mise a pensare alla morte. Perché? Questo a Pereira è impossibile dirlo."

(A. Tabucchi - Sostiene Pereira)


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