"...perché è la più ricca delle isole ed è al primo posto per l’antichità dei miti che si raccontano a suo riguardo. L’isola, in antico chiamata Trinacria per la sua forma, poi denominata Sicania dai Sicani che vi si stabilirono, alla fine ha avuto nome Sicilia dai Siculi, che vi passarono in massa dall’Italia."
(Diodoro Siculo)
Mi sembrava stessi camminando in una kasbah. Gli stessi vicoli intricati e simili contrasti di luce ed ombra. Nel silenzio più assoluto, in pieno giorno. A volte, tendo a viaggiare lontano e lasciar affiorare immagini in associazioni meno aspettate. In qualche angolo oscillano al vento tendaggi colorati e motivi orientali, mentre sui muri in tinte ocra slavate si alternano dipinti su ceramica che riportano la storia dell'isola e la storia di Mazara. Il porto oltre il canale appare già un altro mondo. Infinite forme di deserto. Anchea due passi dal mare.
La barca scivola sull'acqua a pochi centimetri dal fondale: un fondale che data millenni, una strada che affiora alla vista, semisommersa, lastricata dalla terraferma fino ad un'isola antica, quasi ancestrale. Se mi sporgessi per immergere il braccio potrei probabilmente arrivare a sfiorare quei blocchi di pietra squadrati ed incastrati uno con l'altro. Sospiri di storia spirano da queste rovine, tanto vicine dall'imbarcazione, tanto inaccessibili tra i meandri del passato, dal mistero di questi abitanti perduti, da ciò che quasi solamente l'immaginazione può ricostruire dietro questi giunchi ed una manciata di scogli. Sospiri del mare, sopra una superficie liscia ed immobile é uno specchio perfetto intento a capovolgere il sole basso e le prime avvisaglie del tramonto: anche questo é deserto, anche questa é un'immagine che mi rimanda dall'altra parte del mondo, ad altitudini tali da mozzare il fiato che quel deserto di sale lo ospitava.
Sale, montagne candide che brillano di riflessi. Ancora. L'acqua che sommerge i cristalli si tinge dei colori più assurdi, dal rosa al verde, dall'azzurro fino al rosso denso del sangue. E' il trucco favoloso della natura che traduce metalli e lezioni dimenticate di chimica. Abbagliano al sole. Stivali affondano spezzando la crosta, bucano lo spesso strato di questo ghiaccio marino, lavorano incessantemente. E da qualche parte, alle mie spalle, un qualche mulino osserva immobile il lavoro, come un guardiano. Non deve essere semplice. La concentrazione del sale la percepisci subito, sulla pelle oleosa che lascia il contatto con l'acqua satura, osservando gli angoli morti delle vasche di raccolta, oppure ancora buttando l'occhio sui giganti di metallo al lavoro sottoposti ad una corrosione senza pietà. L'estrazione del sale é un paesaggio affascinante e crudele allo stesso tempo.
Questa volta il teatro abbraccia la campagna, una vallata arsa dal sole che si tinge di un verde bruciato, ocra ondeggiante, sfumature di blu. Dall'altra parte dell'isola, l'ultima, gloriosa tappa di un viaggio antico attraverso la Magna Grecia. Gli occhi mettono a fuoco il profilo di un tempio, ora distante, quasi schiacciato su quella stessa vallata. Ho dovuto arrampicarmi, per arrivare fino a quassu. Vorrei ascoltare versi sconosciuti, declamati sul palcoscenico. Lì, più in basso, lungo questa pendenza severa che sono i gradoni, una sezione di cerchio perfetto che riflette quelle voci sfumate nell'aria e le rimbalza come un'eco verso la vallata, verso il mare, che non c'é, verso navi pronte a ripartire.
Ho parcheggiato e mi sono avviato a piedi, sul lungomare. Almeno, così lo chiamo io, visto che in realtà il mare é lontano, e ciò che costeggio in realtà é una distesa di cristalli di sale ed una schiera di mulini. Il luogo, che mi appariva selvaggio e difficilmente accessibile una decina di anni fa, si presenta adesso molto più organizzato e regolamentato. Ma soprattutto più affollato. In questo mio tornare con occhi nuovi in un viaggio a ritroso compiuto in passato é una sensazione ricorrente. E questo é un mio luogo dell'anima, dove quei mulini sono per me allo stesso tempo poesia del paesaggio, malinconiche sentinelle o avversari temibili che nessun Don Quijote ruscirà mai a sconfiggere. Adesso ancora di più, con il cielo incendiato che lentamente si spegne, e le saline che sono un'infinita distesa che assorbe tutti i toni del cielo, i movimenti della gente, ogni rumore per lasciar spazio ai battiti del cuore ed alle lacrime che eventualmente lascia cadere.
"La mia terra è sui fiumi stretta al mare, non altro luogo ha voce così lenta, dove i miei piedi vagano, tra giunchi pesanti di lumache."
(Salvatore Quasimodo)
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