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Immagine del redattoreoytis

Parte Terza - Il deserto della steppa


 



"...In questo combattimento Cinggis-qan fu ferito all'arteria del collo. Era impossibile fermare il sangue; Cinggis-qan era scosso dalla febbre. Con il tramonto si erano accampati in vista del nemico, sul luogo della battaglia. Jelme succhiava continuamente il sangue che si andava rapprendendo. Era seduto con la bocca insanguinata presso il ferito e non si fidava di nessuno abbastanza per farsi sostituire. Quando aveva la bocca piena, o sputava il sangue o lo inghiottiva..."



Il deserto della steppa é il verde smeraldo, anche se a fine estate tende ad essere un colore opaco ormai consunto dal sole. Sono bastati pochi chilometri, poche colline perché dalla città si aprisse questo tappeto sconfinato, dove ogni altra presenza non era altro che un punto minuscolo ed insignificante. Il deserto della steppa é il bianco candido di una ger che già si intravede da lontano. Insieme al verde nella quale é immersa fonde l'essenza di un Paese intero e di un viaggio completo. Mondo ed esistenza racchiusi in un'unica stanza, annebbiata dal fumo, intrisa dell'odore del latte, formidabile mezzo mobile che altro non é che una propaggine dei cavalli e delle mandrie di capre che la circondano, una volta avvicinatisi. Il deserto della steppa é un cielo azzurro senza macchie e senza compromessi, elemento comprimario di quel verde prezioso che copre la terra. Quasi che fosse il suo specchio perfetto, questo blu intenso é, nel cuore dei Mongoli, un dio creatore ed un approdo finale.



"...Tayang-qan si adirò a queste parole e disse: "Destino dell'uomo é morire, destino dell'uomo é soffrire. Se questo é ciò che volete, battiamoci". ..."


Non é difficile scorgere qualche carcassa, di tanto in tanto, finanche a ridosso della strada, o di quel che rimane di una strada. La si scorge seguendo il movimento rapace degli avvoltoi, nell'aria, o il profilo ricurvo intento a divorare dei miseri resti, a terra, incuranti di un motore che sfreccia a poca distanza. La vita si consuma così, nel modo più naturale possibile, in realtà, e quel che ne resta rimane esposto in tutta la sua nuda crudezza. Questa immagine, più di quelle prime di animali liberi in un prato sconfinato, sono quelle che mi colpiscono di più, come a rammentarmi che questo paesaggio così uniforme e silenzioso reca insito in se stesso una legge di violenza ed inevitabilità. E così lo sanno i Mongoli stessi che, almeno nelle proprie tradizioni più pure o tuttora nei luoghi più remoti, ancora restituiscono l'anima al cielo nello stesso modo, a cielo aperto, appunto, perché la terra e la volta che la sovrasta riaccolgano i loro corpi secondo natura. E' un'immagine sconvolgente, da concepite, forse semplicemente perché esposta alla vista ed agli elementi. Come quella sul ciglio della strada.



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