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Immagine del redattoreoytis

Parte Settima - Il deserto del Vento


 


"...Vendicatemi e continuate a far vendetta non soltanto fino a che non avrete perduto le unghie delle cinque dita, ma fino a che non avrete più le dita stesse..."



Credo sia una delle cose più belle che abbia visto. Ogni tappa, del resto, era programmata per questo momento, ma niente poteva prepararmi allo spettacolo di vederli dal vivo, avvicinarsi al galoppo, con le aquile al braccio che spalancavano le ali, in un'esibizione di orgoglio e potenza, ed al tempo stesso un'ancora stretta alle origini, da quei monti che implacabili tra linee aguzze e venti gelidi dominano il paesaggio. Sono arrivati così, emergendo da una nube di polvere, come eroi epici, come cavalieri terribili o campioni imbattibili. Fieri sui loro cavalli, ed imbardati nelle pellicce strappate a questi luoghi come una conquista vinta su un campo dove in palio è la sopravvivenza, ancora nascondevano lo sguardo truce dalla loro arma vivente che ondeggiava con gli artigli conficcati nel guantone. E' bastato vederli così perché ogni tappa, a priori mi portasse qui, a dispetto del tempo e delle distanze interminabili.



E' affascinante pensare che esista un legame segreto tra il cacciatore e la sua aquila. Ogni animale, del resto, viene catturato, cresciuto ed addestrato dal cacciatore stesso. E' un legame univoco che dura anni, dieci, quindici, forse anche venti, fino a quando l'uomo lascerà in libertà il suo compagno. E' affascinante immaginare che l'istinto del rapace si metta a servizio del cavaliere, in una terra dove solitudine e convivenza presentano confini molto labili, ed il richiamo dell'uno richiami immediatamente l'attenzione dell'altro. In realtà, la fedeltà dell'animale è legata alla fame, al suo istinto stesso di caccia, alla ricerca di una preda in nome della sopravvivenza: l'occhio truce che individua il movimento sul terreno e l'immagine del becco che affonda nella carne cruda offerta in premio mostrano l'altro volto - il più istintivo e naturale - di questo sodalizio. Ed in qualche modo, questo legame d'acciaio assume i contorni di un patto di sangue.



Sono salito sulla collina che dominava il campo di gara. Pietre piatte e taglienti scivolavano a tradimento. Da qui, la vista si allargava alla vallata in una vastità che non si poteva apprezzare dal basso. In lontananza, il tempo preannunciava cambiamenti repentini e comunque imprevedibili. Neve, vento gelido, e pure sprazzi di sole. Appollaiati su questi speroni, stavano dispersi i domatori di aquile, con il loro animale aggrappato arcigno sul braccio, e gli occhi oscurati da un cappellino di cuoio. Ad uno ad uno, secondo il turno del cavaliere sul campo di gara, liberavano l'aquila, affidandola al suo istinto famelico ed alla sua fedeltà per il cacciatore. Salire quassù è in qualche modo un punto di vista privilegiato, dove la vertigine del volo e la lungimiranza degli occhi del rapace appaiono evidenti, ma dove anche la competizione assume il suo aspetto più genuino, tra volti segnati dalla natura, mozziconi ardenti di sigari accennati al lato della bocca e battute di scherno incrociate a seconda che l'aquila seguisse il richiamo del cacciatore o meno. Il suo grido soffocava, acuto, disperso nel vento.



E' un profilo scuro che si perde nel cielo. O, visto dalla vertigine dall'alto, un piumaggio spiegato sul colore di erba bruciata. Irraggiungibile, in ogni caso, tanto da sparire alla vista, ad un certo punto. Poi, qualcosa accade. Un movimento impercettibile sul terreno, un richiamo strozzato in gola. E' un attimo: quel profilo scuro si contrae, improvviso oscura il sole come un battito di ciglia, e scende in verticale perfetta. Volo in picchiata. Apre le ali, rasenta il terreno, la preda davanti a se che cerca una fuga. Le ali sono immobili, ma la planata a pochi centimetri dal terreno sconnesso è maestosa e crudele al tempo stesso. Come un destino che ormai è segnato. Per me il momento più spettacolare è proprio questo, quando a volo radente, l'aquila è dietro al cavaliere, prossima ormai a raggiungerlo. Lo segue, immobile apparentemente, sospesa nell'aria, emergendo dalla polvere sollevata dal cavallo. E' un'immagine potente, feroce ed affascinante che si materializza nell'arco di un istante.



Due aquile insieme possono catturare una volpe, od un cucciolo di lupo. Attaccano insieme, coordinate dai cacciatori, che si immergono nel paesaggio silenzioso in gruppi di quattro, cinque destrieri. Una battuta di caccia può durare poche ore o giornate intere. La natura rimane incontrollabile. I kazaki raccolgono le aquile da cuccioli e per mesi, anni, forgiano questo legame profondo ed univoco. Siamo seduti al freddo, a distanza di sicurezza del rostro che lega uno di questi animali, ma distanti anche del tepore che appena abbandonata la jurta da insopportabile diventa già rimpianto. A tratti, l'aquila si agita, e prova a spiccare un volo che rimane smorzato dal laccio che la lega a terra. Lo sguardo acuto rimane coperto da un cappellino di cuoio. Non è difficile immaginare perché questo animale sia stato associato tante volte al potere ed all'orgoglio. Sollevarlo, anche per un istante, rende improvvisamente l'idea dia quanto pesi e di quanto enorme sia in realtà, specialmente con le ali aperte. L'allevamento delle aquile è una tradizione che esprime orgoglio e fatica, impossibile da distinguere con il contesto sociale e naturale dove avviene. Ed è una tradizione che discende, di padre in figlio, trasmessa in quell'oracolo non scritto che si trasmette per via sanguinea. Nella libertà che i cacciatori reclamano, è una scelta che l'erede assume, senza forzature, ed è una scelta aperta sia ai figli maschi come alle femmine, specialmente nei tempi moderni, dove la favola dei cavalieri è una storia da raccontare.



Della vasta terra che è la Mongolia e del mondo che sono le sue genti, quello della minoranza dei cavalieri kazaki è un universo a sé stante. Anche se non reclamano nessuna leggenda di riferimento, la loro figura si perde nella notte dei tempi. Minoranza pacifica, che si spinge sulla zona degli Altai, strettamente legata a queste tradizioni che la rendono unica. La caccia con le aquile ne è l'aspetto più spettacolare ed affascinante. Durante questo festival alle prove dei cacciatori si alternano competizioni di vario tipo, dalla rincorsa della sposa al marito, entrambi lanciati al galoppo mentre una cerca di frustare l'altro, alle competizioni di cammelli che appaiono come veri e propri miraggi in lontananza sulla Via della Seta, fino alle sfide di tiro con l'arco e le prodezze in sella mentre il cavaliere si sbilancia fino a terra a raccogliere una moneta. E poi, c'è la sfida per il montone, una carcassa senza più testa cu cui i cavalieri, a due a due si avventano prima di contenderselo sui loro cavalli.



A quanto pare, è questa la sfida più che cruenta la più sentita da tutti i locali, il cui supporto diventa improvvisamente da hooligans e non manca il saltar fuori all'improvviso di armi bianche. E' stato un attimo, e riguardando poi con la mente gli attimi concitati, è evidente che oltre l'immagine del festival non si scherza poi tanto, quando si vanno a toccare quelle corde che più attingono alla ruvidezza ed alla fisicità di questa vita, di questa società ancora organizzata in clan e della cultura che la mantiene. E' evidente quando la carcassa, infine viene portata dal vincitore al proprio clan, o quando ancora alla premiazione del miglior cacciatore di aquile gli altri clan si lanciano in una carica improvvisa contro il palco. Non voglio essere crudo, ma anche questa è un'immagine della stessa medaglia, di un luogo e della sua gente, vissuta realizzando a distanza di pochi metri come una carica di guerrieri dovesse essere spaventosa in battaglia. Ed allora, ho visto cavalli tramortiti dai teaser della polizia, o aquile strappate dal braccio di cavalieri che venivano disarcionati a forza. Il festival si è chiuso così, con la sensazione che la normalità fosse questa, aspra come il terreno sul quale si svolgeva, feroce come lo sguardo affamato di sangue dell'aquila sulla sua preda.



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