"...Così dite. Aspersi il mio stendardo dalla lunga asta che si vede da lontano, feci rullare il mio tamburo dalla voce sonora, teso, di pelle di bue. Sellai il mio cavallo dalla groppa nera, indossai la corazza cucita di cinghie. Alzai la mia spada con l'elsa, preparai le frecce con le intaccature e sono pronto a combattere a morte contro i Merkit Uduid..."
E' stato il vento, all'inizio. Ogni folata penetrava di più nelle ossa e mi faceva indossare uno strato in più sotto la giacca. E' scesa la neve, saltuariamente. Mentre noi ci dirigevamo verso ovest, verso quei monti Altai che insieme evocavano gelo e leggenda. Poi, é stato il ghiaccio: passi spazzati da strati mobili di neve, un cielo azzurro che nei suoi riflessi appariva quasi crudele, prima di sparire in una tormenta improvvisa. E in questa spazio senza riferimenti, anche l'ombra di un cavallo e del suo cavaliere. Il deserto, la notte, si manifestava in tutta la sua ferocia e mi lasciava immobile all'ingresso di un gelo perenne.
Nascosti tra la neve rimangono segni tracciati sulla pietra. Caccia, rincorsa, animali. Tutto coperto dalla neve, in una tempesta che diventa ghiaccio. Difficile trovare anche solo un riferimento che guidi lo sguardo o mi protegga dal freddo. Lontano scorgo i riflessi di un lago ghiacciato, cui fa da cornice un paesaggio fiabesco, anch'esso addormentato in questo gelo senza ritorno. Ho vagato così, questi ultimi giorni, cedendo fisicamente ad una stanchezza ed una temperatura fiaccanti, dove il paesaggio era un deserto ancora più crudele ed il tempo spillava attraverso un contagocce congelato.
Nel mezzo del nulla, come altre volte. Le mandrie di pecore, qualche cavallo, un paio di motociclette ed i cani che abbaiano. Tutto attorno ad una yurta svuotata apposta per noi. Ospitalità senza riserve. Fuori sibila il vento, spazza una pianura circondata da monti che sembrano un po' come quelle dune di sabbia: piccole salite insidiose che si riveleranno senza fine. Ho camminato in direzione opposta, verso quello che era un piccolo lago, riflesso di un cielo alieno che si chiudeva nella sera e luci ghiacciate, alla ricerca di un movimento, uno stormo intero che da quel bianco emergesse, battito d'ali in un luogo incantato dove il tempo non ha più ragione d'essere.
La yurta appartiene ad una famiglia kazaka. Una di quelle che da ovest, oltre un secolo fa passò i confini in cerca di rifugio e si unì indissolubilmente all'altro versante dei monti Altai, oltre il confine. Cavalieri di un altro mondo, custodi di una tradizione secolare, nella desolazione del gelo, nel silenzio spazzato di neve, i cacciatori di aquile si scoprono in tutta questa loro forza epica, hanno lo sguardo fiero, le mani ruvide che strofinano la neve e, soprattutto, quel battito d'ali che con la stessa autoritaria fierezza sembra voglia sfidare ogni cosa. Come il profilo di un eroe, in lontananza, dentro una sfera di cristallo: ritto, il cavallo che sbuffa - così almeno lo immagino, troppo lontano dalla mia vista - ed il braccio che si alza perché come una protuberanza del corpo l'aquila si possa librare, lo sguardo torvo, feroce, mentre già vola radente, con le ali immobili a veleggiare nel vento, a scrutare il terreno ed aggrapparsi alla preda.
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