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Immagine del redattoreoytis

Magna Grecia


 

"... Ma quel che ne fa una terra necessaria a vedersi e unica al mondo, è il fatto che da un’estremità all’altra, essa si può definire uno strano e divino museo di architettura..."



"Te prego, o splendida, più bella tra le città dei mortali."

(Pindaro)


Ci sono immagini ben precise che raccolgo nella memoria dalla Valle dei Templi. Sono piccoli dettagli: un raggio abbagliante in controluce, una finestra aperta nel nulla, le mandorle sul terreno giallo bruciato, e le costruzioni di piccole chiocciole bianche attaccate ad un filo d'erba, perfino i profili di un'architettura asettica e selvaggia che dalla piana dell'antica Agrigento si scorge netta e graffiante nella città moderna a pochi chilometri in linea d'aria. Sono immagini che ritrovo, quasi preservate nel tempo, come immobile é il loro sfondo, un'imponente presenza di costruzioni che quel tempo lo sfidano quasi indenni; immobile é l'aria, rovente, che permea il sito archeologico e rende il canto delle cicale ancora più marcato nel silenzio che si insinua tra le pieghe del tempo.



Sono tornato un'ultima volta. Ho sceso le scale, verso la spiaggia, da quel punto privilegiato che mi permetteva facilmente di essere là di prima mattina. Ora, un silenzio perfetto. Quello del mare calmo e trasparente della mattina. Ed una linea altrettanot prefetta, all'orizzonte, due mondi opposti che si sovrappongono e rispecchiano. Ancora una volta, riguardo questo luogo con occhi perduti ed un po' vacui, sfioro la roccia liscia che dalla sabbia si protende nel mare, sfioro l'acqua salata, immobile, ed osservo ancora i riflessi, come volessi memorizzare ogni dettaglio, e la falesia candida, ad un estremo della spiaggia come un miraggio, qualcosa che sta già sfumando ai miei occhi, sia per via di una lacrima amara o perché, prima o poi, é tempo di andare.



La costa sud mi segue, tra cielo e mare. E rovine perdute e silenziose. Quasi di soppiatto sono arrivato ad un'antica cava, i blocchi di pietra ancora grezzi semilavorati già staccati dal costone.

Mani anonime hanno scolpito qualcosa, per poi lasciare incompiuto il loro lavoro, e provo un senso di vertigine pensare che ci sia io a toccare quelle superfici esattamente nel punto in cui loro si sono staccate.Piantati nel terreno con i loro tronchi nodosi e travagliati, gli olivi ondeggiano ad ogni brezza di vento e rivelano quel lato coperto delle loro foglie che appaiono di un verde argenteo dai riflessi divini. E' un'immagine potente che mi affascina ogni volta.

Ho salito un lungo costone, per incamminarmi lungo un sentireo a picco sul mare. Il guardiano ha parlato di una città antica praticamente sepolta e di quanto rimane di un'antica chiesa che era sorta su ciò che ne rimaneva. Ma é il paesaggio quello che cerco, le ombre nette, i campi ondulati in lontananza, il mare a strapiombo ed ancora un silenzio avvolgente nel quale cerco di ritrovare una certa tranquillità. Ma soprattutto, é un albero piegato, quasi forgiato, dal vento, che mi appare come sospeso verso il vuoto, un'immagine epica ed iconica allo stesso tempo che mi rimanda - letteralmente - alla Fine del Mondo, in un luogo talmente lontano e diverso. Viaggio, senza meta.



Ho abbandonato la città alta per scendere al porto. Scale, naturalmente. Naturalmente colorate. In poche decine di metri di altitudine l'aria cambia in maniera drammatica, e la brezza fresca che saliva ai parapetti lascia spazio ad un'aria afosa ed irrespirabile, oltre che impregnata degli sapori malsani dal porto.

Il luogo mi stringe lo stomaco e nubi improvvise ne esasperano la sensazione. Non passa un attimo che scarichino un rovescio di pioggia elettrica ed umidità ancora più insistente. Sono scoperto. E trovo riparo all'ingresso di un magazzino del pesce. Un paio di immigrati nordafricani stanno scaricando casse colme da portare dentro, e mi viene naturale cedere il passo il più possibile, scoprendomi dal riparo dell'esigua tettoia. Ho visto praticamente soltanto loro, all'opera, qui al magazzino come nelle rimesse delle barche o lungo i pontili, qualcuno completamente macchiato di olio motore, alcuni in movimento in bicicletta. Uno dei due, sorridendo, mi invita nuovamente sotto quel riparo, anzi cerca pure di fare spazio per tirare fuori una sedia da chissà dove. Mi sale alla mente un ricordo, anni fa, alle porte di una città millenaria lambita dal deserto ed un uomo che aveva insistito perché accettassi una bottiglia d'acqua. Palestina. Nel mio cuore lo ringrazio più di quanto possa fare a voce perché la semplicità e la premura del suo gesto sono disarmanti. Quest'uomo, penso, é mio fratello.





"...La prua della barca taglia in due il mare

ma il mare si riunisce e rimane sempre uguale

e tra un greco, un normanno, un bizantino

io son rimasto comunque siciliano..."

(Lucio Dalla)





Un altro luogo che non potevo dimenticare. Dopo aver camminato il pomeriggio, dopo la luce del tramonto che lentamente si spegneva oltre le rovine, in un punto lontano al largo del mare. Ho scoperto che le sere d'esate il parco archeologico rimane aperto. Notte calda di settembre e silenzio, profondo. Le colonne si accendono come lambite da fuochi sacri, il sentiero scompare inghiottito nel buio, tanto che é solo lo sfrigolare delle scarpe sul selciato a marcare i passi, ed il vento che sussurra voci ancestrali. Se di giorno il mio viaggio nell'antica Selinunte era stato un labirintico ritorno in un luogo della mia memoria, la sera é come se si fossero spalancate porte invisibili. La sera é suggestione. I blocchi di storia, le pietre divine, giacciono sul terreno irregolare. E' come se una mano le avesse urtate accidentalmente. Altrove, invece, restano ordinate a comporre figure perfette, cui soltanto i secoli hanno graffiato via il colore. Il silenzio di questo luogo é un pozzo profondo che travalica il tempo.




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