30 Giugno 2014 Non è semplice scrivere quanto avevo in mente oggi. Ho aperto il computer per cercare di scrivere questo post, con un giorno di ritardo. E, come spesso accade, visto che non so mai come iniziare, ho aperto il giornale, per vedere il risultato di Francia-Nigeria. Ancora 0-0. Come erano 0-0 Brasile e Croazia una sera di metà giugno, prima partita del mondiale. Quella sera io era ad Haifa, stralunato per la giornata ma soprattutto per la fatica che avevo appena speso nel trovare un albergo che sembrava inesistente ad un indirizzo inesistente. Boccheggiavo sul letto. Oggi inizia il Ramadam. Nessuna di queste credo sia una coincidenza. Nemmeno che aprendo il giornale la notizia in cima non riguardasse una partita in tempo reale dei mondiali brasiliani, quanto piuttosto il ritrovamento dei corpi dei tre ragazzi israeliani rapiti nei pressi di Hebron meno di 20 giorni fa. Mi sono chiesto cosa dovessi allora raccontare, in questo blog, in questo e nel prossimo post che ho in mente di scrivere. Io, ad Hebron ci sono stato, un mese fa. Ora, immagino, sarà inaccessibile, come gran parte della Cisgiordania. Io ci sono stato, e mi sento privilegiato, in un certo senso, per tanti motivi. Questa giornata è stata per me una delle più significative ed intense del mio viaggio in Israele. E' stato anche l'unico giorno in cui mi sono affidato ad un tour, che mi era stato consigliato da una ragazza italiana (Silvia, di Padova) che ho incontrato per caso a Gerusalemme. Promossa da organizzazioni che tramite il turismo cercano di costruire flebilissimi ponti, mi portava nella prima mezza giornata nella parte palestinese della città, per poi passare dalla parte israeliana con un ragazzo israeliano. Perchè Hebron è una città divisa, nel cuore stesso: al centro la Tomba dei Patriarchi, la tomba di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, in parte moschea dedicata al culto islamico, in parte sinagoga dedicata al culto ebraico. Le die parti son ermeticamente divise ed incomunicabili. Non parliamo nemmeno dei cristiani. E' un luogo di primaria importanza per tutte le tre grandi religioni, anche se per me assurge a monumento dell'assurdità umana. Hebron è una realtà particolare, perchè gli insediamenti si spingono nel cuore del centro città arabo e non si limitano a circondarlo nelle periferie. "Per secoli Hebron ospitò una piccola comunità ebraica, ma nel 1929 un gruppo di nazionalisti arabi attaccò gli ebrei locali - tutti ultraortodossi non sionisti - uccidendo 67 persone e disperdendo il resto della comunità. Dopo il 1967, gli ebrei ortodossi fecero ritorno in città ed una delle caratteristiche che saltano più all'occhio nella Hebron odierna è la presenza di soldati israeliani a guardia di queste enclavi ebraiche - abitate da alcuni tra i coloni più intransigenti della Cisgiordania - in pieno centro. Nel 1994, durante il Ramadam, e nel giorno della festività ebraica di Purim, Buruch Goldstein, un medico nato a Brooklyn, aprì il fuoco sui palestinesi che pregavano nella Moschea di Ibrahim, uccidndo 29 persone e ferendone altre 200. I coloni più moderati, così come l'Israeliano medio, ritengono che Goldstein sia stato uno spietato assassino, mentr agli occhi dei coloni estremisti, che considerano i Palestinesi come intrusi stranieri in Terra d'Israele, è un eroe e la sua tomba continua ad essere meta di pellegrinaggio". (dalle note della guida Lonely Planet) Nel giro di poche ore ho sentito due storie, in realtà più di due, completamente opposte riguardo Hebron ed i Territori in generale. Ho visto ed ascoltato, sapendo che non tutto quello che mi arrivava era vero. Ho fatto domande, a cui, per quanto chiare, non sono riuscito ad ottenere risposta. Per questo, questa storia voglio raccontarla, per come ho ripetuto questo racconto nella mia mente, in questi giorni. Raccontando quello che ho visto. Nella tragedia di oggi. Domandandomi cosa ci sia, a pochi giorni di distanza, ancora, di tutto ciò. Dove siano i due ragazzi che ci hanno accompagnato, i negozianti, i bambini. Dove siano i soldati, intravisti dietro i posti di blocco e le basi avanzate, così come le donne che ci hanno ospitato per il pranzo o gli uomini che mi hanno offerto il the su una terrazza polverosa o quelli che lavorano il vetro secondo l'antica tecnica fenicia che li rende famosi in tutto il Medio Oriente, dove siano le donne della cooperativa che tengono aperto un negozio di tessuti nel suq semideserto.
28 Maggio 2014
E' un viaggio lungo, in bus, malgrado la distanza. L'autobus è rimasto imbottigliato entro una marea di bambini che sfilavano con la bandiera biancoazzurra della stella di David lungo le strade cantando e giocando. E' un giorno particolare oggi, anche se non ne conosco il motivo. Come dubito lo conoscano i bambini grembiulino e zainetto per le strade. Eppure sono in Cisgiordania. Ma l'autobus, partenza dalla stazione centrale di Gerusalemme è un autobus israeliano, che collega la città con gli insediamenti. Ho perso l'orientamento, quasi subito, ovviamente, ma è evidente che mi muovo di insediamento in insediamento, lungo la strada per Hebron. E così, siamo arrivati. Al vento sventolano fili di bandierine biancoazzurre ed un palco è in allestimento, perchè, a quanto pare, questa sera qui si terrà la cerimonia di consegna da un reparto all'altro dell'esercito israeliano per il controllo della città.
Poco lontano, infine, due ragazzotti palestinesi ci attendono in una zona ibrida, in cui non è chiaro quali permessi servano loro per poter stare, all'ombra di un chiosco di cartoline, sotto lo sguardo di un paio di militari annoiati. Mentre si avvicina un bambino in sella ad un asino, facciamo pochi passi e siamo di fronte ad un bivio. Un bivio su tre lati, con cancelli e posti di blocco: una strada in salita, chiusa e guardata a vista, l'accesso alla Moschea di Ibrahim e l'entrata lla città vecchia attraverso quello che era fino a qualche anno fa il suq. Oltrepassare questi cancelli è come oltrepassare la porta di una prigione: i tornelli cigolano, il metallo verniciato di bianco mostra i primi segni di ruggine, in teoria potremmo essere perquisiti e si deve esibire un documento di riconoscimento. Prima di noi passano tre bambine ed una pezza di bambola in mano. Il tornello scricchiola ancora. Ed io sono entrato in un mondo. Ora sono in Palestina, non più solo fisicamente, qualunque cosa possa significare. Questo una volta era un suq colmo di vita e di caos, secondo la declinazione classica araba. Oggi invece passa qualcuno, ma i negozi semiaperti e deserti lungo la strada sembrano testimoniare esattamente ciò che non c'è più. Qui sembra si combatta per non soccombere all'oblio, l'oblio di una situazione politica che nell'oblio diventerebbe uno status quo. Qui sorseggiare una spremuta d'arancia mi sembra un gesto che trascende il sapore intenso dei futti del sole, un bambino si muove con il vassoio del thè e delle donne gestiscono una cooperativa che vende tessuti lavorati sul luogo. Qui sembrano essere rimasti soltanto gli anziani, i cui occhi sembrano accompagnare nel tempo le storie che hanno da raccontare e che sembrano testimoniare una rassegnazione mista a saggezza, quella saggezza tipica di chi ha lasciato alle spalle una porzione sufficiente della propria vita per poter raccontare. Ma anche loro, pur nella loro saggezza, si oppongono all'oblio del mondo. E lo fanno mostrando una mappa dei Territori, di quello che dovrebbero essere secondo una linea tratteggiata e di quello che sono, secondo zone di colori diversi che indicano controlli giuridici differenti. Lo fanno puntando il dito verso il cielo, guidando il nostro sguardo: sopra di noi si alternano strati di lamiera e linee di filo spinato. Ed infine, case nuove, squadrate e di pietra bianca di Gerusalemme, alle cui finestre sventolano le bandiere con la stella di David. Da qui, dicono, vengono lanciate immondizie e rifiuti. Per questo motivo le lamiere e le reti. Il dito si sposta e sfiora delle sciarpe pashmine, imbrattate di uova: quest'uomo le tiene esposte perchè lui non lascerà questo posto.
Questo, dunque, è il cielo di Hebron. A me l'immagine del filo spinato su sfondo azzurro evoca altre silenziose immagini passate davanti ai miei occhi. Queste sono le case: in continua costruzione. Dicono. Un piano in aggiunta ad un altro, a poco a poco e silenziosamente. Come silenziosamente, immagino, scendano lungo le colline circostanti, le case che compaiono poco a poco, dei nuovi coloni israeliani. Il ritiro degli insediamenti non esiste, anzi. Questo me lo aveva raccontato quella ragazza italiana incontrata a Gerusalemme: agevolazioni ed incentivi, secondo lei. Ed un'industria edile che non si ferma, non si potrebbe nemmeno fermare perchè interromperebbe un flusso circolare di denaro. Come un labirinto, è impossibile sapere cosa sia in funzione, cosa abbandonato, cosa distrutto, una scuola sequestrata e dismessa, un centro per l'infanzia chiuso. A volte credi ti stiano conducendo in un vicolo colmo di macerie, e spuntano delle scale, saliamo fino ad una terrazza, e pochi metri più in là è un altro stato, un'altra vita. Poi giro lo sguardo nell'altra direzione e sopra di me trovo una torretta di guardia. Ruoto ancora la testa e vedo filo spinato, macerie e, più in là una bandiera di Israele. Non basta lo zucchero a rendere meno amaro questo the alla menta, caldo tra le mani. Che le storie che mi raccontano sono conosciute: le ispezioni senza preavviso, l'ordine di non avere una seratura alla porta perchè altrimenti sarà distrutta. Sono storie di soldi offerti - a cifre poco credibili, in realtà - per la terra e la casa, del rifiuto ad abbandonare la propria terra, e di ciò che è successo in seguito: irruzioni, arresti, ambulanze ferme al posto di blocco e bambini morti nel ventre materno. Sono storie di bambini perquisiti, acqua che manca e fori di proiettili lasciati nel ventre dei silos d'acqua sul tetto, oggetti lanciati, serpenti fatti entrare dalla finestra dove gioca un bambino.
Dal suq vecchio si sbuca in una piazza affollatissima, ricca di vita, viavai di animali, merci per terra, ai lati, sui carretti. E' un caos organizzato. E' la strada che prosegue verso un portone d'acciaio che sbarra la strada. Sembra di accedere ad un oracolo, lasciando ai lati dei propri passi i blocchi di cemento armato, le pietre sul terreno, mozziconi di oggetti bruciati. Controllo passaporti, delle sbarre che cigolano. Resta il sole, ma piombo nel silenzio. Pochi metri che sembrano terra di nessuno, ed io ch vedo quelle stessa case, da un altro lato. Nel silenzio, leggendo ai muri una storia che segue le stesse date ma racconta qualcosa di diverso, l'attacco che diventa difesa, invasione che diventa resistenza e risorgimento, e viceversa. Credo che la storia personale del ragazzo che ci ha preso in consegna sia molto esemplificativa: americano, educazione laica da una famiglia ebrea, questo ragazzo ha deciso di visitare Israele alla ricerca delle proprie origini, ha iniziato a studiare la Torah ed ha trovato se stesso e la propria casa. Qui ad Hebron. Si è arruolato, ha preso cittadinanza israeliana (per diritto immediato, in quanto ebreo), e come israeliano ha servito per tre lunghi anni. Barba lunga, ed accento americano. No sa immaginarsi altrove che qui, in un posto sacro che è la Terra dei Padri e la Terra Promessa. Perchè è proprio questo il punto. La gente che vive qui lo fa seguendo una missione alla ricerca delle proprie origini. In questo, non ci sono barriere, da una parte e dall'altra: il significato della terra e l'identificazione con essa sono fortissimi. Ed attorno ad essa ruotano gli scontri più assurdi, come quello di non poter scavare, nella terra e nel passato, alla ricerca dei Padri, perchè questo, in ottica palestinese, sarebbe un permettere agli ebrei di dimostrare la propria presenza nella notte dei tempi. Questo ragazzo non è così semplice da definire. Certo, l'emozione provata nel luogo da dove siamo arrivati non aiuta. Parla dell'orgoglio di aver riportato i Rotoli nella Tomba dei Patriarchi, narra pen nome, per data, per luogo, ogni uomo israeliano caduto. Dietro ognuno di essi c'è il rispetto di un caduto per la patria e per la patria, ed il ricordo della persona. Ma ci sono nomi oscuri, da una parte e dall'altra: quando glielo facciamo notare, lui risponde che una differenza c'è, che se da una parte questi vengono condannati e si esalti sempre la vita, dall'altra per contro questi nomi sono venerati e si esalti pubblicamente la morte, fin ad inneggiarvi. Le sue dita indicano mura con colpi di mortaio e fori di pallottole, le sue mani puntano ad un parco giochi per bambini, recintato di reti e tettoie perchè qui, proprio per la presenza di bambini, piovono le pietre con maggiore frequenza. La nostra guida dice una cosa che ha senso: che la ricostruzione deve avvenire tra persona e persona, da uomo a uomo, seduti ad un tavolo la sera a sorseggiare the, fumare il narghilè e parlare di affari. Solo così si stabilirà la pace. Ma questo ragazzo si chiede, e ci chiede, come possano delle case di famiglie ebree ad Hebron rappresentare un ostacolo alla pace. Questo ragazzo ha eletto l'esercito, le cui basi si sistemano a ridosso dei giardini delle villette, la propria famiglia in cui rifugiarsi il giorno dello Shabbat. I suoi compagni sono ragazzi che vengono da altre parti del Paese, hanno vent'anni e magari oggi, mentre stazionano sotto il sole cocente ed allungano parte della propria razione ad un bambino palestinese, compioni gli anni. Ancora una volta la realtà è indistinguibile, quasi si dissolve e sembra non esistere. Come l'acqua, fornita continuativamente e senza restrizioni, come la comprvendita di terreni e case, che rimane un tema incomprensibile e senza risposta, come la città di Hebron, che ora appare enorme in confronto all'enclave israeliana situata al centro e come le scuole che ora non sono chiuse ma protette.
Questo è il mio racconto, queste le domande senza risposta. Posso solo raccontare quello che ho visto: il cielo oscurato dalle reti spinate, le porte senza serrature, le pietre sulla strada, i fori nei muri ed i parco giochi recintati. Posso raccontare di quello che non ho visto ma sentito: una tensione palpabile, pronta ad esplodere, covata dietro ingiustizie, lutti e risentimenti a catena. Questo non avrà mai fine. Non lo dicono apertamente, ma si odiano, nel profondo. E tutto ciò che ognuno vede dell'altro sono soltanto un cancello che cigola, soldati armati fino ai denti e pietre che piovono dal cielo. Nessuno conosce l'altro, nessuno comunica, persona a persona. E noi, siamo spettri, a cui magari cercare di acquisire un po' di consenso, che ci spostiamo da una parte all'altra. E nel momento in cui un uomo dice Shalom e porge la mano, l'altro non la accetta, e tace, quando anche il suo saluto sarebbe lo stesso augurio di pace, quasi la stessa parola, Salam. Eppure, ancora una volta, non c'è comunicazione. Sono tornato a Gerusalemme, la sera. Una sera di festa, perchè oggi si celebra la celebrazione della città. Questo spiega tutte quelle bandiere sventolate al vento, sin dalla mattina. Qui, per la città vecchia, i piu' giovani soprattuto cantano e danzano, si ammantano della bandiera di Israele e cantano salmi. In un certo senso, mi ricorda la festa della Regina, in Olanda, solo coi colori bianco azzurri al posto dell'arancione ed una danza gioiosa al posto della birra. Scendo fino al Muro del Pianto e, forse ancora più che il venerdì prima dllo Shabbat mi trovo di fronte, e dentro, uno spettacolo di grandissima intensità. E' un sentimento che narra la volontà estrema di Israele di esistere, di fronte alla Storia e nel futuro, il sapore della Terra. Eppure, io mi domando se e quanto ognuna di queste persone si chieda quanto costi questo momento di festa: i cecchini appostati tutt'intorno, i posti di blocco, sulla strada, i bambini che giocano col rumore dei tornelli, gli sguardi che non vedranno mai perchè nemmeno possono entrare, gli Israeliani, nei territori di giurisdizione palestinese, le case senza uscio ed il senso di quelle pietre abbandonate per terra. E forse, la risposta mi arriva quasi per caso, da una coppia giovane, giunta da Tel Aviv che mi chiede di scattare delle foto. Lui dice che gli israeliani vogliono la pace, che l'hanno offerta finanche con tutti i territori, ma niente. Dice che sull'Europa soffiano venti antisemiti, che le politiche del mondo occidentale, America ed Europa sono contro Israele. Io credo ci sia una differenza tra antisemitismo e critica politica. Credo che la situazione sia incredibilmente complicata, solo questo posso dire, come complicata ed inestricabile l'ho veduta e vissuta in questa giornata incredibile. Sono giovani, vestono all'occidentale, ma quando porgo la mano alla donna, per salutarla, lei rifiuta il gesto, perchè per una donna non è conveniente stringere la mano ad un uomo sconosciuto.
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