Cammino tra gli spazi di una vecchia stazione; laddove immagino ci fossero cartelli e viavai di dame vestite all'ultima moda o di poveri passeggeri di terza classe, pareti candide custodiscono capolavori consegnati alla Storia. Solo grandi orologi alle finestre ricordano vagamente che questo non sempre è stato un museo. Ho deciso a priori di non andare al Louvre – un'altra volta, per giorni interi magari... - ma qui sì, assolutamente, volevo fermarmi.
E mi ritrovo tra gli Impressionisti, tra quelle tele derise e blasfeme, che vanno dritte al cuore. Il disegno scompare, i colori e la luce scintillano e diventano protagonisti assoluti, tracciano figure sfumate nel tempo. Ogni pittore ha i suoi colori, la propria luce, ed è unico rispetto ai propri compagni, con quei nomi che sembrano quasi uscire da una fiaba. Manet, Renoir, Degas, Cezanne... ad ogni nome c'è qualcosa di personale da associare, un piccolo spazio di colori che vi si lega indissolubilmente... e soprattutto, Monet, quello che mi emoziona più degli altri. Mi avvicino più che posso, voglio vedere i segni del pennello, voglio capire come questi tratti che appaiono così confusi, disposti in apparente semplicità, possano sconvolgermi l'animo in questo modo.
La sala successiva, come sempre accade quando qualcosa è associato al suo nome, è dedicata a Van Gogh. Così unico che risulta impossibile inquadrarlo. Ho sempre amato Van Gogh. I suoi tratti di pennello, così violenti, graffianti, le sue spirali contorte, le ombre, narrano un tormento continuo e fanno tenerezza. Sono poesia e scontro epico al tempo stesso. Come pochi altri sono stati in grado di fare. E' vero, si tende ad osservare e cercare di scorgere ovunque gli avvenimenti più forti della vita di un artista... eppure sono lì, davanti a migliaia di occhi, ma a lungo nessuno ha saputo guardarvi dentro. Invisibile agli occhi... Mi viene in mente di colpo un dipinto esposto ad Amsterdam, uno degli ultimi, l'ultimo forse... Campo di grano con corvi... E mi viene in mente un acquerello che il mio nonno, ingegnere pittore, aveva dipinto malato in occasione delle sue nozze d'oro: un mazzo di rose appena sbocciate, raccolte in un vaso dal collo lungo e trasparente colmo d'acqua. Una, meno sgargiante, sembrava sbagliata col suo gambo dipinto quasi completamente fuori il contorno del vaso. Niente è per caso...
Sfoglio il libro che ho comprato, sul tavolo, ascoltando la musica in sottofondo, cercando di liberare la mente... Tutte le ninfee di Monet... Vorrei ancora essere seduto al centro di una delle due sale ovali all'Orangerie. Ci resterei per ore, ad osservare le lunghissime tele di ninfee, tutto attorno a me. Da solo, chiuderei gli occhi e cercherei di ascoltare la musica di questi dipinti. Sarebbe mai possibile? Le pagine profumano di nuovo, si schiudono a fatica. Mi piace l'odore di nuovo dei libri... Passo il palmo aperto della mano, senza sfiorare la carta, sulle riproduzioni, pagine e pagine di colori. Ripetere questo gesto mi piace... mi accade spesso anche con uno spartito. Può sembrare sciocco, lo so, eppure, ancora una volta, vorrei chiudere gli occhi ed aspirare attraverso le dita l'essenza di ciò che sfiorano, assaporarne tutta la potenza espressiva e la passionalità che vi immagino racchiuse. Alcune immagini, a grandezza naturale, evidenziano i colpi di pennello decisi, mentre si fondono in una pittura che vista così da vicino sembra quasi astratta. Altre si aprono in quattro, sei fogli. Ninfee, ninfee ed ancora ninfee... di giorno, di sera, la mattina... scure o chiare, decise o appena accennate, magari nascoste alla vista minata dalla cecità. Sono malinconiche, le ninfee di Monet; custodiscono una magia inaccessibile, qualcosa che comunque resta inafferrabile. Sono malinconiche, le ninfee... e meravigliose.
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