23/27 Agosto 2013
E' una ventata d'aria rovente ad avvolgermi quando il portellone si apre. E' già più vivibile, la sera, mentre mi arrampico sulla rocca che si affaccia sulla medina di Fes. Sbuffo, fatico, osservo questa città inestricabile che si sviluppa ai miei piedi: una conca di case agglomerate una sull'altra, una nell'altra, di vicoli che non si vedono, di antenne paraboliche sui tetti piatti e bassi. Inaccessibile, ignota come tutto ciò che posso immaginare, le rovine che scendono sulla collina fino a fondersi con le pietre bianche di un cimitero senza regola, del paesaggio brullo che scende, ad est come ad ovest. Molta gente sale quassu, la sera, quando il sole sta per scendere, respire l'aria più fresca, osserva un cielo che si fa notte, e migliaia di ombre nascoste. Ci sono tanti bambini, é una delle prime cose che noto, in giro per conto proprio, per conto di non saprai mai dire chi, a correre dietro un pallone o aggrappati ad una mano.
Sono entrato. Seguendo una strada che veloce é scomparsa in un mercato continuo, un viavai senza direzione, senza soluzione, senza riferimento. Avrò camminato cinquanta, forse cento metri. E mi sono perso, letteralmente. A destra, a sinistra, non so dove. Tra ombra intensa e fasci di luce di un giorno nuovo che a stento penetrano tra i vicoli. Per questo si respira, il caldo rimane fuori, come se uno scudo invisibile circondasse la città vecchia, anche dall'alto. Certo, ma cosa respiro… la testa viene sopraffatta dell'odore del pesce sui bancali, le spezie nei cesti, investito dall'odore intense della pella lavorata e quello paralizzante delle concerie. Qui, più che altrove, é la città dell'artigianato, ed ecco I battitori del ferro, li senti martellare da qualche parte, rumore che si disperde lungo i vicoli che si trasformano in cuniculi, I tessuti sono lavorati e ricamati da entrambi i lati second un punto particolare ch mi viene spiegato, ma soprattutto qui si lavora la pelle. Un lavoro tremendo, in ogni sua fase, dalla concia alla lavorazione, su piattaforme che tolgono il respire tanto sono sature di veleni e nell'antro di stanza senz'aria. Io sono perso. E non sono sempre mani sicure quelle che vogliono guidarti a tutti i costi, anche quando soltanto vorresti camminare. E' un vortice continuo, di voci, di mani, di sapori. Mi scanso, appena in tempo, per evitare un asino che risale mesto e carico di merci lungo la strada. Ne passa un altro, cadenzato dall'avvertimento del suo padrone. Passa un carretto. Passa, passa… E chi mi chiede dove vado, cosa voglio, se qualcosa voglio… no, grazie… impossibile… di nuovo i battitori del ferro, ora le concerie… perso di nuovo, in un labirinto senza direzione, senza stella polare, senza fine. Come pace improvvisa, a volte oltrepasso un portone ed il silenzio si impone. Basta che si chiuda una porta alle spalle. Dove sono… una madrasa, ovvero una scuola coranica, quando era, allora… la luce si insinua, radente, dal soffitto e colpisce i legni intgliati, gli intarsi nello stucco di un bianco abbagliante e di una raffinatezza che non ammette replica, le fontane di ceramica colorata che non zampillano più acqua. Tra costrizione ed infinito. Segua questo disegno continuo, questa calligrafia scolpita da mille e una notte, come un velo che ondeggia trascinato dal vento su dune di sabbia, danzano parole scolpite come disegni. Si chiude la porta. Nel silenzio, soltanto lo scricchiolio di un'impalcatura, e la polvere che si libera da una giuntura. Silenzio, buio, luce diffusa di palazzi che a volte sono lasciati così, uno strato di polvere densa sopra fasti passati. Una donna stende un tappeto, un uomo spinge una porta arrugginita che di ogni camera fa accedere ad una reggia.
Uno dei ragazzi che mi mostra le concerie si chiama Ali. Come ovunque, qui, non si capisce se sia di passaggio al negozio di manufatti di pelle, se vi lavori, se chiunque conosca (e ci si conosce tutti...) lavori lì. So solo che é sbucato fuori al richiamo del padre, qualche negozio più in là. Passando, mi indica un altro venditore, anziano, che saluta con grande rispetto e che, a differenza di molti altri se ne sta seduto tranquillo, senza dimenarsi in cerca dell'attenzione dei passanti. Saluta anche me, in arabo, con quella gentilezza che include un senso di profondo rispetto e silente autorità. E' l'imam della moschea qui dietro. Ali ha 15, forse 18 anni, e lavora anche lui nella conceria che si apre sotto la terrazza del negozio. Mi porge un ramoscello di menta per non sentire l'odore delle pelli al lavoro, ma io lo rifiuto. Non é molto interessato, se non per ripetere quello che indicherà a centinaia di persone, su questa terrazza, e mi lascia a guardare. Ha le gambe ferite dalla calce, come gocce che schizzano oltre poveri stivali, in questi catini nauseabondi di colori e miscugli chimici. Le stesse ferite di un altro ragazzo, una terrazza più in basso, curvo su pelli distese al sole, mentre vi stende il colore ottenuto direttamente dallo zafferano, l'oro del Marocco. Scese le scale mi aggangia un altro venditore, giovane abbastanza da potergli dare del tu che é ansioso di mostrarmi il suo negozio. Non vuole vendere a tutti i costi, perché scherza con me ai miei rifiuti, quando stende tappeti, parla di olio di Argan o sventola sciarpe da passare attorno al collo o da avvolgere attorno al capo per andare nel deserto. Vorrei aiutarlo ed evitare che tiri fuori tanta roba... "no problem, solo vedere"... veloce, rapido... eppure quest'uomo fa tutto con un solo braccio. Ho imparato presto che é sempre meglio interagire con persone più anziane, perché é come se dalla vita avessero davvero maturato una saggezza ed un'esperienza che rende il disinteresse ostentato più genuino e soprattutto molto meno aggressivo. Nondimeno, sanno davvero dei luoghi di cui parlano e lo fanno davvero per trasmettere qualcosa. Nella mellah, il vecchio quartiere ebraico, incontro così Zakariyya. Desta un po' meraviglia incontrare un mussulmano con un nome biblico, eppure scoprirò ne giorni seguenti che in realtà é un nome abbastanza comune. Comunque sia, la famiglia di Zakariyya é davvero legata agli Ebrei che fino ad un paio di generazioni passate vivevano in questo quartiere, perché il nonno prestava servizio presso una di esse. Non c'era conflitto, in queste comunità, tra religioni diverse. Non ce n'é mai stato. Le case si affacciano, una di fronte all'altra, in una sequenza labirintica di stradine e passaggi, e solo i balconi, esposti o meno sulla strada, distinguono la religione di appartenenza. Zakariyya ha un tono di dissenso per il potere che ancora costringe famiglie in queste case corrose dal tempo senza che niente sia fatto, e lo fa mostrandomi crepe e resti di crolli che si sono portati via delle vite. Lui vive qui, come i suoi padri prima di lui, e racconta ciò che ha vissuto di persona. L'altro lato di questa realtà si chiama Mohammed, un uomo in eleganti vestiti arabi che incontro al parco. Lo status sociale di Mohammed traspare dai modi, dal modo di parlare, dal telefono palmare da cui sfodera le immagini del suo lavoro e della sua famiglia. Mohammed suona ai banchetti nuziali e, capisco in qualche modo, é un musicista. Ha due figli (ma mostra sempre solo le foto del maschio), quando suona si veste in giacca e cravatta, ed ha la possibilità di presenziare ad uno dei festival musicali più importanti del Paese, che si tiene a Fes in giugno. Mohammed insiste perché la mia idea del suo Paese non si restringa alle esperienze spiacevoli che si possono incontrare per la medina e, riguidandomi per le strade della mellah, vuole mostrarmi questo angolo di città con gli occhi di un marocchino. Egli stesso é a suo modo un'espressione di quanto racconta: consapevole del proprio salto sociale, si muove a proprio agio tra le strade tortuose, tra i venditori del souq e gli avventori del salon de the, fondendo insieme medina e ville nouvelle.
Non potrei parlare di Meknes senza parlare di Abdul-Alim. Abdul-Alim é alla guardia di uno dei negozi persi nel souq della medina, proprio di fronte all'entrata della madrasa. Quando esco, si stacca dai suoi banconi e mi riaggancia. Abdul-Alim, questo il suo nome, vuole a tutti i costi mostrarmi la scuola dove lavora. Perché lui é un insegnante, durante l'anno, e segue anzi bambini con ritardi mentali. Quest'uomo avrà più o meno quarant'anni, dice di avere un fratello che stava a Lucca, prima che ne perdesse notizia, cinque anni fa, ed ha una bambina di pochi anni. Ma soprattutto, Abdul-Alim, che parla un po' di inglese, un po' di italiano, un po' di francese, dietro i denti rovinati dalla miseria ed anneriti dall'uso, ha un sorriso buono. Non me ne rendo conto, ma é lui a consegnarmi una delle cose più preziose che porterò con me. Ama i bambini, ed ama la letteratura. E' così che alla fine mi prende idealmente per mano e mi porta attraverso le case, i cui colori qui a Meknes riflettono le etnie d'origine dei suoi abitanti: cristiani, ebrei, arabi e berberi, il bianco si fonde col grigio, il verde col rosa. E' sempre lui a condurmi di fronte alle porte di poeti, matematici ed astronomi, ognuna col suo colore, nella bottega di un falegname, ad odorare l'odore del cedro intagliato, nel retro di un hammam, dove un bambino getta tizzoni ardenti per creare i vapori. Abdul mi parla del suo lavoro, dei bambini che incontra per strada e che riconosce con una carezza sul capo, delle feste. Rimediando col sorriso laddove sono io a dover completare una parola in inglese. E poi giù, oltre la porta della citta che dà sul souq dei gioiellieri, scendo con lui nell'inferno delle concerie: le vedo dal basso, questa volta, ormai nel riposo di fine giornata, attraverso ogni fase di lavorazione della pelle, i macchinari, le parti lasciate ad asciugare, ogni parte dettagliata, sfiorata con mano. Scendo negli abissi delle baracche, dei lavoratori, un paio di ratti che vedo fuggire, il buio di strade che non esistono. E poi fuori, di nuovo, al centro di un mercato di ogni cosa, sempre lui mi fa parlare con una donna che estrae spezie dai fiori, che prepara l'henna seduta su un gradone di strada. Spezza i blocchi di sale come fossero pane, Abdul, e me li porge, come mi porge le spezie di Meknes. Con il suo sorriso sdentato e genuino.
E' una valle generosa, quella di Meknes, e se ne erano accorti anche i Romani. Qui, su un terreno arso dal sole, restano pietre aggiustate in qualche modo e tasselli colorati sul terreno. Una città enorme, ai suoi tempi, circondata dall'oro del grano e dal fuoco del sole. Olive...una montagna di olive. E poi le quarantaquattro spezie di Meknes, il sale, il frumento. Cammino su una strada di montagna che la mattina é quasi carrettera per i muli. La gente viaggia così, si perde nella foschia del mattino tra chissà quali campagne, attorno alla città sacra di Moulay Idriss, un panettone gigante coperto di case, una sull'altra, attorno al mausoleo del re profeta e fondatore di una dinastia. Volubilis si perde all'orizzonte, da quella parte. Di qui passano tracce profonde di storia, che nel silenzio di un campo perso nell'orizzonte, nel fruscio degli ulivi così come dell'erba bruciata dall'estate, si é fermata nel tempo.
...Che ne sai di un bambino che rubava e soltanto nel buio giocava e del sole che trafigge i solai, che ne sai e di un mondo tutto chiuso in una via... ...Conosci me la mia lealtà tu sai che oggi morirei per onestà. Conosci me il nome mio...
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