5 Marzo 2011 Ci sono dei vicoli ciechi che si diramano, poco lontano da Place du Marche, centro ideale di Liegi; si addossano alla collina sovrastante la "città ardente", vi penetrano quasi, e bastan pochi passi per sentirsi catapultati in un'altra dimensione. Una dimensione intima, racchiusa nelle stradine larghe non più di un metro e mezzo, nel silenzio che cala improvviso e nella semplice quotidianità che appare scandita da ritmi di altri tempi. Si chiamano impasse, questi angoli nascosti, che rivelano una struttura cittadina complicata e tortuosa, antica ed operaia, e sono la sorpresa di questa città. Una città che, come altre sorelle maggiori del Belgio si presenta sempre con quell'atmosfera di fasto decaduto ed un malinconico senso di abbandono. La vita che si riversa per le strade, nel sabato pomeriggio sembra solo un fluire, una scossa che, al tramonto, non scalfisce questa impressione, e probabilmente si trasmette nascosta ad uno sguardo di passaggio. E' una città francese, con orgoglio ovviamente, la più a nord d'Europa, con la lingua che soltanto dieci chilometri oltre é tutt'altra cosa, la fragranza del pane sfornato che tanto mi manca, e la fonduta, spettacolare e coreografica, della sera.
Sbucando tra un impasse e l'altro ci si trova dinanzi all'altro punto caratteristico che per me rimane impresso di Liegi: un'imponente scalinata che su quel colle vi si arrampica per davvero, costruito ed usato come collegamento veloce tra una fortezza militare e la cittadina, che potesse evitare sobborgi malfamati e triettorie pericolose. Una linea dritta ne solca il terreno e si apre su due ali di edifici la cui sagoma tipica si ripete fin quasi verso il cielo. Vivere qui non dev'essere semplice. Si sale lentamente, perché anche un piccione preferisce spazzare i gradini alla ricerca di una briciola di pane e, troppo pigro per alzarsi in volo, saltella e risale la collina gradino dopo gradino. E dalla cima, come un sipario a teatro, si apre la vista sula città, l'aria palpabile degli ultimi strali d'inverno, ed il colore tipico del mattone, le forme che si ripetono simili, così come quel senso di malinconica decadenza.
6 Marzo 2011 E' carnevale, e si va più a sud, nel cuore della Vallonia, e si arriva a Binche, dove i giorni del carnevale sono rito collettivo atteso tutto l'anno. La cittadina stessa, poco più che un bastione arroccato, si identifica nel carnevale. La cosa che colpisce é la partecipazione corale e collettiva, senza esclusione. Non solo bambini, anzi... in questo mondo rovesciato sembrano siano loro a voler tenere a bada i genitori che li trascinano nella festa. Un delirio collettivo, e di semplice bellezza. Quasi come fossero delle contrade, gruppi di maschere a tema uguali marciano, saltano e scandiscono il ritmo, invadono i pub, ed infine sfilano per le strade del paese di cui si sono appropriati, addirittura scortati da poliziotti a cavallo - moderni cavalieri - tra fiumi di birra e giganteschi coni di patatine fritte, in un'euforia sana e generale. Le vere maschere, quelle che rendono famoso questo carnevale, appariranno soltanto domani. I Binche, armati di arance da lanciare alla folla come dono, appariranno ovunque, e già le finestre degli edifici sono protette da schermate di ferro. ma oggi, intanto, la festa é di tutti, disordinata e ordinata allo stesso tempo, sottosopra, come può essere solo a carnevale.
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