Forse era questo l'oro del Reno. Forse è qui che hanno vissuto i Nibelunghi. Combattuto, sfidato le proprie passioni, vissuto pes esse. Chissà quali dei dal Walhalla si sono fermati qui, quante volte, forse per sempre. E francamente non saprei immaginare un proscenio migliore per la loro saga. Acqua. Lenta, silenziosa e maestosa. Tra Coblenza e Magonza il Reno sfila in una vallata scintillante di verde e disseminata di castelli. Ognuno con la propria leggenda, i propri fantasmi e le proprie rovine. Rupi diroccate o sentinelle ancora all'erta dietro ogni ansa. Il Gatto ed il Topo, i Fratelli Nemici, la Torre del Topo... i nomi iniziano già a raccontare. E lentamente bisogna scendere e risalire queste rive, da destra a sinistra. Adattandosi al corso del fiume, alla vita che porta e che bagna, ad ogni curva. E' quasi fisico, rallentare. Forse saranno gli scorci congelati nel tempo, forse quelle case a graticcio che pendono e si appoggiano una sull'altra come spuntassero da un cartone animato, o forse è il sussurro della foresta. Così, arrampicandosi ai lati della valle, come i filari di vite che salgono su paralleli ed imperterriti, affondo nel verde sfumato della foresta, cerco un sentiero filtrato dai raggi sempre più bassi del sole. E poi, la vista si apre, si squarcia, quasi, e dall'altra parte già la linea del sole traccia una linea d'ombra e si vede, tutto l'oro del Reno, mentre in basso il fiume disegna curvature perfette. Scintillio lontano d'acqua. Lontano il silenzio dei castelli che fanno da guardia, in continuazione. Passare di qui non era semplice. E non era semplice passare a fianco della rupe più maestosa, sirena figlia del Reno che la leggenda racconta come distruttrice di barche, e gli scrittori romantici cantano come il vento che fin lassù sale. Il viandante su un mare di nebbia sicuramente è passato di qui, un giorno, e sognante ha guardato lo strapiombo ai suoi piedi, perdendosi.
Nel buio della sera resta solo un indefinito pozzo nero. Oscuro, silenzioso, sinistro. Tutta la potenza immane del fiume la si avverte in ciò che non si vede. Ancora più sinistro quando nel buio passa un treno, sulla ferrovia che costeggia entrambi i lati, sferraglia e rimbomba, quando già si è infilato dietro una galleria e le rotaie non tremano più. E dall'altra parte sfila soltanto di sfuggita il faro bianco di una macchina. Allora guardo alle spalle, con gli occhi dei suoni, dei rumori, che da una taverna si perdono in fretta, un ristorante, una gelateria, due voci che parlano. E qualche lampione che segna la via. E magari illuminano pure qualche foglia di vite, di quelle che si attorcigliano finanche sulle pareti delle case, con quei disegni di legno e muratura che mi fanno venire in mente la Normandia. Il resto... sembra abbandonarsi alla notte, come in un sogno, cui si affidano immagini, impressioni e passioni. Come facevano gli dei del Walhalla, forse, scendendo quaggiù. Abbandonati alla deriva, tra le acque di un fiume che, invisibile, calma, dilata il tempo, dilata il silenzio, lo stesso che sale tra i filari di viti, gli alberi, tutto nascosto agli occhi, quelli aperti almeno. Scorre via.
Altissima quaeque flumina minimo sono labuntur. (I fiumi più profondi sono quelli che scorrendo fanno meno rumore)
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