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L'acqua é vita


 


28/30 Agosto 2013



Inizia così, da subito. E' una lingua d'asfalto, questa strada che si perde tra la roccia, procede dritta, ora svolta, là, dove arriva lo sguardo, ora sfida le montagne, le taglia, le oltrepassa e si getta, di nuovo, nel nulla. In una terra che diventa sempre più un luogo di nessuno, una terra dimenticata. Questa sarà la compagna di un viaggio lungo chissà quanto, chissà dove, una lingua d'asfalto, sperando che ci sia sempre, e tutto quello che si raccoglie sul suo ciglio. Dove mi porta questi primi giorni... c'é una cascata che sembra un pezzo di felicità, con un paese costruito di capanne e terrazzamenti, la gente che si immerge nelle acque limpide, le voci che si mescolano nella gola che si apre improvvisa. Ci arrivo che ho lo stomaco a pezzi, proprio ora; forse ho chiesto troppo al mio fisico i primi giorni, forse é il caldo, la tensione, qualcosa, ma la via del ritorno, per strada, per trovare dove fermarsi, é come una passione attraversata come un automa. Dove mi porta... a volte sono un po' frustrato, non riesco a raggiungere, trovare, arrivare. E mi trovo solo ad immaginare il villaggio dei minatori abbandonato e le gole nascoste. Non riesco, non posso, un torrente che ha lasciato un selciato di pietra arido ha spazzato via tutto, cancellato la via, o almeno segnata. Posso solo immaginare, mentre arrivo, ed una donna anziana seduta sull'uscio di casa fa casere il the dalla brocca, nell'aria, fino al bicchiere, aggiunge lo zucchero e con un sorriso colmo di rughe me lo porge. Sono in macchina, ancora, ed una svolta laterale devia e si insinua in una foresta di cedri. Perché non tutto é deserto. E' il legno che odora, come nelle botteghe dei falegnami, sono le eco di un villaggio, un paio di tende e tanta musica nascosti dagli alberi stessi un centinaio di metri più in basso. Ma non é questo a rallentare. No, é un fruscio tra le fronde, uno scatto d'ombra, due occhi quasi umani. Poi quattro, sei, otto, una comunità intera: scimmie, certo, che osservano, incrociano lo sguardo, sbadigliano annoiate nella calura del pomeriggio. Libere, sono libere, tra gli arbusti di cedro ed i declivi della montagna; sfuggono, all'inizio, prendono confidenza, si rimettono più a proprio agio. Africa, lo sento, ora, dopo essermi chiesto se questo fosse un luogo dimenticato, dopo spazi aridi ed immobili, tutto in apparenza almeno; ora, Africa, alla fine é qui che sono, anche questo é, e si riflette in questi occhi quasi umani.



Le valli dell'Atlante possono essere ricche. Così attorno a Midelt, almeno. Me lo dice Youssef, un ragazzo più giovane di me di almeno sei/sette anni che parla spagnolo. Lo incontro davanti alla porta sbarrata di un monastero francescano, due anime di numero perse in questo luogo e quando mi vede armeggiare con la mappa stradale insiste per invitarmi al rito del the a casa sua. Declino l'invito ma mi metto a parlare di strade, che mentre le seguo sulla carta nei nostri discorsi diventano ogni tanto delle "carretteras". Youssef sembra molto interessato al giro che voglio fare. Ma, al di là di questo, mi parla di lavoro, di spostamenti e di lontanaza. Perché egli ama la sua terra, questa terra, questa valle, che vede e descrive ricca, di frutti e d'amore, ancora di più ai suoi occhi, e non vuole lasciarla. Mi sono fermato in questo posto seguendo una raccomandazione scritta. Dopo giorni di digiuno forzato, da qualche parte sulla via del deserto sembra ci sia una pizzeria col forno a legna. Ma soprattutto, sembra che la specialità di questo luogo sia un piatto berbero tipico, chaimato madfouna, cotto nel forno a legna come un calzone infarcito di carne d'agnello speziata di erbe e cipolle. Alla porta c'é una ragazza, giovane e bella. Ha gli occhi neri come la notte, un sorriso rassicurante ed i tratti esotici di un luogo indefinito che la rendono diversa da qualunque donna abbia visto finora, non solo per l'aspetto ma anche per la libertà dei gesti, dello sguardo, dei movimenti. Non ci parlo poco più che per ordinare e scambiare qualche informazione, ma conosco il suo nome, Fatima, tra i più comuni in Marocco. Lo so perché così la chiama il fratello, o il marito, chi lo sa, che armeggia davanti al fuoco. E così, la seguo mentre nel salone vuoto del pomeriggio rincorre un bambino, che sia figlio, nipote o fratello, ed io costruisco una storia. Così mi viene in mente Santiago, nel deserto. Anche ne L'Alchimista c'e una ragazza che si chiama Fatima ed ha gli occhi scuri come la notte. Mi viene in mente un passaggio, uno sguardo ed un sorriso rubato, ciò che sognerei sotto un tappeto di stelle, e tante altre cose che questa ragazza, cui per caso ho carpito il nome, mi ha rimandato indietro, coi miei occhi da sognatore sprofondato in un libro, in un ricordo o in un sogno non lo so, tanto tutto é avvolto nel buio. "In quel momento fu come se il tempo si fermasse, e l’Anima del Mondo sorgesse con tutta la sua forza davanti al ragazzo. Quando guardo’ gli occhi di lei, un paio di occhi neri, le labbra indecise fra un sorriso e il silenzio, egli comprese la parte piu’ importante e piu’ saggia del Linguaggio che parlava il mondo e che chiunque, sulla terra, era in grado di capire con il proprio cuore. E si chiamava Amore, una cosa piu’ antica degli uomini e persino del deserto, che tuttavia risorgeva sempre con la stessa forza dovunque due sguardi si incrociassero come si incrociarono quei due davanti a un pozzo. Le labbra della giovane, infine, decisero di accennare un sorriso: era un segnale, il segnale che il ragazzo aveva atteso per tanto tempo nel corso della vita, che aveva ricercato nelle pecore e nei libri, nei cristalli e nel silenzio del deserto."



L'acqua é vita. Mai come di fronte ad immagini come questa, di fronte al verde che esplode sotto i tuoi occhi, sotto i tuoi piedi, in mezzo alla roccia più cruda, più arida. E' vita che scorre come un torrente, una lingua limacciosa, una palude costretta. In effetti, in pochi giorni molto di di quanto postessi immaginare prende forma e colore. Sto scendendo, sto cercando un deserto di sabbia attraverso montagne e deserti di pietra. E tra queste conformazioni fanno capolino asini dall'andatura cadenzata, la polvere che s'alza ai loro passi ed il rumore dei sassi calpestati. Compaiono le oasi, un'esplosione di palme ed un angolo di pace circondato da sole e terra brulla. Scendere nella valle, sotto il sole del giorno, e trovarsi all'ombra ti un groviglio di palme, costeggiando terreni fertili ricchi di prodotti della terra, ecome ritagliarsi un angolo di paradiso. Qui ricompare la vita, che scorre tranquilla come l'acqua che la porta, come le abitudini dei contadini, di un paio di bambini che cavalcano il proprio asinello, col fratello più grande che traina la sorellina seduta a cavalcioni, qui l'aria e fresca e si respira a pieni polmoni, in un senso di quiete e pace profonde. E compaiono infine le kasbah, le labirintiche cittadelle fortificate. Le vedo, per la prima volta, ne supero la porta d'accesso e di colpo mi ritrovo in un dedalo di vicoli bui entro cui si incanala l'aria fresca. Paglia e fango, sembra tutto incredibile quanto sia possibile, imponenti come fortezze da fuori, antri segreti e fresche all'interno. Per quanto possa, almeno questa prima volta, sentirmi di camminare e respirare.



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