Sembra un vortice. Di colori, sguardi, ombre e sapori. Di vedute che tolgono il fiato, strade in salita che tolgono il fiato, ed altre che invece terminano chissà dove. Tra la polvere, mattoni spaccati, rumori assordanti inframmezzati da silenzi profondi. Anche questo é l'essere di una città eterna, quando su un palo una freccia indica ad est, la città proibita, ed una ad ovest, i fori imperiali. Costantinopoli, Bisanzio, Istanbul... un tumulto di vita e storia che si perde a vista d'occhio, ai due lati del mare. Sembra un vortice. In vortice danzano i Mevlevi, tunica bianca, la testa inclinata, lo sguardo in estasi. La musica scorre, sembra quasi soffiare sulle vesti, trascinare i dervisci rotanti in questo sforzo fisico che appare tanto leggero e che sembra protarsi in un'eternità di tempo, in perfetto equilibrio con un universo astratto e dai confini inafferrabili. Gli occhi chiusi, un soffio di vento e quando li riapri sono i colori del mercato a girare vertiginosamente. Stoffe preziose, luci scintillanti, qualsiasi oggetto si possa immaginare, nel bazar coperto più grande del mondo. E voci, tantissime voci, che si fondono insieme in una Babele nella quale comunque riesci a capirti. Certo, non ci senti più lo sferrragliare dei carri, tutto quest'oro d'oriente e terre lontan é un po' più vicino. Ma portantini passano veloci con i loro vassoi sospesi carichi di tazzine di thé, si fermano un istante, ripartono. Magari un venditore allora ne afferra il braccio giusto in tempo, prende una seconda tazzina e la offre a te, che sei lì di fronte, ripetendo un rituale che va oltre, che é un gesto umano antico più del tempo. Perso, in una citta fatta di stoffe sventolanti e ceramiche... un'uscita infine, attraverso un dedalo di viuzze che vanno in discesa. Non so dove sono, non so quale via, inebriato da tanta gente, tanta attività frenetica e normale che schizza in ogni direzione. Fino a ritrovarmi, intravedo un minareto, sembra dietro l'angolo ed invece sparisce, svolta improvvisa, via dietro ogni via, e sguardi coperti, sguardi abituati, sguardi che strizzano gli occhi. E così mi ritrovo, anche questa volta. Ed é un altro vortice. Di spezie colorate, montagne di colori, di spezie di cui non saprei nemmeno immaginare il sapore, una accanto all'altro, quasi invitassero a tuffarvi le mani e sentirle passare tra le dita. Mi chino, sulle ceste di te, il sapore sale al cervello, intenso, buonissimo.
Mi sono ritrovato, e c'é il mare, infine. Mi piace pensare che ogni strada alla fine mi porterà qui, in riva al mare, azzurro di giorno, sordo gorgoglio la sera. Ancora girano, voci, luci, suoni. Centinaia di canne da pesca gettate sul Bosforo, ognuno che si arrangia, si ritrova, discute, sul bordo di un ponte a due piani. Ma l'essenza più autentica é a due passi, coi venditori di pesce che imbandiscono sedie e tavolini su sgabelletti sgangherati. Filtra la luce, proietta ombre in movimento, e la luna ascendente in alto nel cielo. Il mare, certo. Ed uno stormo infinito di gabbiani che si alzano in volo, seguono il traghetto sul quale ti trovi, uno sbuffo nel cielo, i motori che stridono ed un suono prolungato sospeso nell'aria. Lo circondano, quasi. In vortice, si intende, che anche questo ti avvolge. Come l'odore del pesce appena sbarcato, che quasi lo senti in bocca, la mattina, scendendo i vicoli dietro la città vecchia. Ancora esala un alito di vita, boccheggia, sui banconi, a due passi dai ristoranti ed uomini stanchi, i volti segnati, ne spostano le casse attorno questo altro bazar tutto particolare. Come immagini che scorrono si continuo. Ci sono palazzi che conservano storie, gemme e leggende. D'amore, di fede e di tragedie. C'e la torre dei Genovesi, che si arrampica su una collina, si presenta di scorcio tra vicoli bui. E d'improvviso si accendono le luci, la strada si apre e come un proscenio si anima fino ad esplodere. Come un vortice, certo, il suono di un violino combatte con lo sferragliare avanzante di un tram. E poi... il silenzio. Le scarpe lasciate a lato dell'ingresso, su marmi bianchi e lucenti, entro nella penombra. E' sera, é la preghiera che precede il venerdì. E come un cerchio amplissimo, un lampadario gira attorno tutta la sala. Osservo. I gesti, i movimenti, i rituali. E su, lo sguardo, segue questo lampadario sospeso nell'aria, su ricami calligrafici ed astratti motivi ornamentali.
Colore, tanto. Luce, calda e soffusa. E poi c'é l'oro. Quello di Santa Sofia, per intendersi, dove fa effetto vedere appesi tondi con scritte arabe su sfondo verde accanto a figure di santi. La storia di Istanbul si riassume in questa immagine. Il mio viaggio, invece, in un vortice, ancora una volta. Di questi lampadari sospesi nello spazio, che sembrano danzare, come quei dervisci, quanto mi hanno impressionato, in un altro universo. Ancora strade, salita e discesa. Seguendo sulla mappa, cupole gigantesche. Per la strada, invece, a seguire lo sguardo intenso dei gatti, e quello timido dei bambini, é impossibile non perdersi. Ma ci sarà sempre un'indicazione, uno sguardo, una cesta di noce nella quale affondare la mano. Eppure basta poco, scendere per queste vie, e vedere che non tutto é semplice, che le tradizioni sono più intense, che ci sono occhi che osservano il mondo attraverso un velo nero. Complicato, certo, ed intenso, come il rosso di una bandiera che sventola ovunque. Capire, comprendere. E come un vortice, ancora, il canto diffuso dai minareti avvolge l'aria e la luce accesa di un tramonto infuocato.
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