Il mio racconto inizia da qui, Makrinitsa, un borgo fatto di ciottoli incastonato sulla montagna ai piedi della quale di stende Volos. Il balcone del Pelio, che poi é una penisola che si distende nel mare all'orizzonte. Appena arrivato, l'angoscia nell'animo, e già perso nel traffico. Qua sopra sembra già tutto diverso. Il mio racconto inizia qui, al tavolo di una taverna che presto si riempie di gente del luogo, nell'anticamera di un rito, quello della cena che é ritrovo quando il sole concede un po' di pace. Una bambina osserva ipnotizzata il suonatore di mandolino, una pipa in bocca, e tra le mani melodie che sgorgano come fonte d'acua viva. E' la stessa bambina che si sporgeva solo mezz'ora fa dal promontorio, un confine del mondo, una città ai suoi piedi pronta ad immettersi nella notte, ed una bandiera fiaccata dall'assenza di un alito di vento. La bambina ora sorride e si protende al suonatore di mandolino che il sorriso ricambia, nella brezza legerissima che lambisce questa, come altre balconate di legno, intrecciate di vimini, sospese sul fianco della vallata che col buio diventerà vuoto. Sembra strano eppure... come tre anni fa sulla collina del Licabetto, anche stasera ho visto la Luna sorgere di fronte al sole calante. Dovrebbe essere normale, uno dice, eppure non é così, non lo é vederlo e notarlo, ricordarlo sullo stesso suolo, sotto lo stesso cielo, sotto il cielo del mito.
Il mio racconto inzia dunque qui, un villaggio di poche anime e qualche turista salito per la sera, i negozi ancora aperti, tra spezie, miele e marmellate, erbe ed oggetti di legno d'ulivo. Mi piacciono questi ultimi, perché entrando lo senti, l'odore del legno, salirti nelle narici ed inondrti i polmoni, senti il sapore dell'olio d'oliva, ne bagni invisibile le mani sfiorando gli oggetti. Inizia qui, la macchina fotografica in mano, e infine un po' di coraggio, una pieve bizantina all'ombra del platano e bambini che si rincorrono schivando i cani che esausti si distendono sul selciato.
La strada verso sud é lunga, ma qui voglio fermarmi. Qui, dove arrivavano pellegrini da tutto il mondo antico, qui dove l'oracolo vaticinava di guerre e di pace, di goni decisione. Qui, infine, dove ero stato tre anni fa, sì, con la mia macchina rubata poi in aeroporto e le foto perse. Delfi, la salita all'oracolo sotto il sole cocente, attraversando templi ed i tesori accumulati in offerta della varie città stato.
Ma soprattutto... Delfi ed il tempio di Atena laggiù, il tholos circolare posto a dominio della vallata, solo tre colonne ancora in piedi, ad ergersi al sole, ma sufficienti per disegnare una figura perfetta. Tra gli olivi che smossi dal vento sembrano vogliano fare da eco infinito ai versi di Byron, un luogo dell'anima sospeso nei ricordi che riaffiorano, quando solitario attraversavo questi luoghi. Ricordo le fotografie, rubate, e le ricerco, ritrovo i negozi, le due vie che attraversano il paesino, pure i negozi dov'ero entrato, il portone dell'albergo. E' tutto ancora lì sembra immutato, come queste pietre disposte a cerchio da oltre duemila anni, che allora esigevano rispetto ed incutevano timore e che ora si perdono nel paesaggio. Fa sempre un certo effetto tornare dove si é già passati, credo... penso ai luoghi, per un attimo penso anche ai mulini, un altro luogo che in qualche modo ho nel cuore... e quella frase, che i luoghi siano in un certo senso delle promesse che sta a noi mantenere, perché i luoghi rastano lì ad aspettare... aspettare che torniamo, a volte invece che non torniamo, perché ad alcuni luoghi può succedere che si prometta anche questo.
Ed infine, arriva il ponte, proteso verso quel mondo che attende, verso il Peloponneso, verso una tappa un po' forzata, la discesa é così, che passa innanzitutto per Olimpia. Quasi corressimo anche noi, sotto l'arco che introduce allo stadio, ormai una conca coperta di verda, ed immagini le urla, il sudore, i riti propiziatori sotto il sole limpido, le donne lontane, perché che provava ad entrare veniva scaraventata giù da una rupe. Il resto del mito legato a questo nome fonde storia e leggenda, ed ogni parola é superflua.
Non lontano, almeno in linea d'aria, su un monte scosceso al termine di una strada sinuosa si erge un tempio dedicato ad Apollo, completamente rinchiuso sotto un tendone per evitare danni che si protraggono da quando venne eretto. Il tendone ruba molto del fascino al luogo, un capo Sunio tra le montagne, ma non impedisce alla luce di filtrare da chissà quale fenditura e colorare così le colonne puntellate di un caldo contrasto che come squarcio imporvviso sembra colmare il silenzio racchiuso in questo luogo, sotto questo velo disteso come a coprire la scenografia spettacolare di un prosceni, interrotto soltanto dai miei passi sul terreno ghiaioso che si perdono tra le fila di colonne e la cella centrale, dove sul pavimento si aprono ampie fratture.
E' ancora lunga la strada per arrivare, stasera, ed é attraverso le strade tortuose dell'Arcadia centrale. La regione cantata da poeti e scrittori che per secoli la elessero a mondo ideale. Su queste strade, tra scollinamenti e vallate, si spegne la luce di un altro giorno, mentre ancora siamo in strada, mentre piccoli villaggi di impronta medievale si aprono al passaggio, dietro ogni curva o nascosto ad ogni profilo. Una piazza, l'ombra di un platano, le cattedrale ortodossa e magari le rovine arroccate una fortezza a guardia sulla cima di una rupe vicina. E delle campane, sospese nell'aria, a scandire nel silenzio delle viuzze strette e deserte, ogni mezz'ora. Prima che il sole tramonti e proietti lunghe ombre di girasoli ormai bruciati lungo il ciglio della strada.
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