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Fortezze veneziane ed eremi bizantini: attraversando la storia del Peloponneso


 



Sarà mare, dunque, finalmente. Azzurro, limpido, silenzioso e tranquillo, entro i pontili ben definiti dei porticcioli, le imbarcazioni dei pescatori adagiate sull'acqua, le case biance e basse adagiate all'ombra degli alberi. Silenzio, nel giorno, eco lontana e qualche luce la sera, quando infine sembrano destarsi le voci ed animarsi le stradine adagiate su dislivelli verticali ed i passaggi segreti che si rivelano soltanto al tuo passaggio. E sempre, uno splendente chiaro di luna piena.

Eppure tanto tranquille queste acque non furono. Sui fondali restano adagiati i relitti di flotte intere, sul ciglio di ogni sperone roccioso sorgono solide fortificazioni, bastioni di difesa e punti di controllo. Qui la Serenissima aveva spalancato i suoi occhi, occhi di pietra, verso oriente, verso la minaccia turca, e controllava le sue ricche rotte di scambio. Qui i Greci combatterono in epoca moderna per la propria indipendenza, qui passo' Byron che per quell'indipendenza scrisse versi accorati, infine aiutati dalle potenze europee dai quei versi stessi, un pò, risvegliate. Qui le diroccate linee di difesa, ancora solide e sovrastanti, si contrappongono alle candide croci ornate di fiori che si aprono su altrettanto vertiginose vedute.

Qui, molto tempo prima, arrivò Telemaco, sbarcando su una spiaggia dorata dal profilo perfetto, a ferro di cavallo, racchiusa entro due roccioni scoscesi che ne chiudono la perfetta scenografia. Le flebili onde del mare che scavano la baia danno l'illusione di trasportare ancore il rumore delle imbarcazioni di Itaca, il calpestio dei marinai armati scesi nell'acqua, la voce incomprensibile di uomini narrati nel mito. Salì di poco, verso nord-est, al palazzo di Nestore, eroe omerico, cercando notizie del padre. Oytis... e mai non sapeva si nominasse così. Nessuno... voce invisibile che si perde nel tempo, trasposta nel mito di un viaggio senza fine, sussurrata su queste pietre, attraverso questi paesaggi, viva nella voce stessa del mare che incessante si infrange su spiagge come questa.



Bastano pochi chilometri lasciati alle spalle del mare ed è già salita e nuovi tornanti, ascesa fino a Messeni, antica e potente città micenea le cui rovine si confondono entro il profilo di un sonnolento borgo contadino, pietre scalfite, strappate alla terra ed all'oblio, che disegnano teatri, fontane sfarzose ed uno stadio proteso verso l'orizzonte aperto della vallata, mentre delle abitazioni, che poi c'erano e mai nessuno ci pensa, reastano solo profili tracciati con la mente.

Strada di montagna, questa volta per davvero, ancora, per arrivare ad una montagna. Passando la rupe dalla quale i più deboli figli degli Spartani venivano gettati ed abbandonati al proprio destino. Della grande città guerriera, in fondo alla gola, non rimane che il nome, ed un abitato che già da lontano non reca testimonianze di sè. Ma è qui, all'imbocco di questa stessa gola che sorge Mystras, ultima presenza bizantina e canto postumo di un impero. Inaccessibile, sotto il sole che non concede scampo ed uno si chiede come facessero a spostarsi qui dentro, dominata da una fortezza che era centro nevralgico e custode ultimo della ricchezza della città. Attorno, sui fianchi, si disegnano camminamenti, strade, abitazioni, palazzi. La parte bassa concede respiro, all'ombra di ulivi sfiorati da un vento caldo e nel rifugio accogliente delle chiese ortodosse e dell'ultimo monastero rimasto. Vi si giunge come al termine di un viaggio a ritroso nel tempo, attraverso abitazioni in rovina e resti di case bizantine. Vi si giunge con l'umiltà del pellegrino, e col rispetto che spetta ai pellegrini si viene accolti, curiosi testimoni di un mondo in movimento e continua evoluzione in un mondo, un altro in cui invece ogni gesto rimane misurato, rallentato nei modi e nei significati.



Ho trovato un altro luogo dell'anima. Sospeso nel mare, aggrappato ad uno sperone roccioso che come montagna uscita da chissà quale forza ancestrale increspa le onde del Mediterraneo a cui la terraferma lo strappa soltanto attraverso la lunga linea di un ponte di pietra. Sembra una Mont St'Michel del Mediterraneo, nascosta da terra, dove solo l'ombra minacciosa della montagna e le cupe rovine della fortezza veneziana sovrastante sulla cima appaiono visibili. Perchè Monemvasia guarda verso il mare, quello dai riflessi argentati della luna piena e di lava infuocata la mattina all'alba. Monemvasia è di per sè una roccaforte, paese cinto da quelle mura che scendono vertiginose dalla fortezza stessa, abbracciato su ogni lato, incluso quello del mare, dal quale si accese attraverso ripide scalinate nascoste allo sguardo poco attento.

E' un meraviglioso dedalo di vicoli, scalinate acciottolate e passagi quasi segreti, è il silenzio che rapidamente ti avvolge, la sera, appena deviato dalla sttradina principale, sulle quali si alternano negozi di ninnoli ed i tavoli delle taverne, è il fragore delle onde che si infrangono contro gli scogli sotto i piedi. E' il piacere di perdersi, che sia sera ed a guidare il passo siano le eco lontane o le fioche luci delle lanterne anchesse sospese nell'aria, o che sia mattina, il sole crescente che presto riscalderà ogni masso, e sarà possibile avventurarsi nei luoghi più remoti. Perchè questi ciottoli dal Medioevo di passi ne han visti parecchi, e sono levigati come il marmo. Qui ho rischiato di lasciare sul terreno la macchina fotografica. Qui si nascondono chiese e chiesette, neanche fossero una per casa, ed un crocifisso trafugato, frammentato, ritrovato ed infine restituito, orgoglio di quell'ultima popolazione che ancore risiede nel borgo. Monemvasia è il vento, infine, su una terrazza, al termine di tutto, il mare ed un veliero soltanto davanti, che ti sferza il viso e lo fa risalire, il profumo del mare, il sapore della salsedine che si fonde in una coppa di yoghurt e miele sul tavolo. Prima di ripartire.



Ciò che resta alle spalle è un altro mondo, e man mano che passano i chilometri lungo una strada di montagna, man mano che scorrono sotto gli occhi e sotto la strada le spiaggie nascoste, risalendo lungo la parte est sembra quasi di rientrare nel mondo più familiare. Ricompaiono le città, le mete più use al turismo, e svanisce quell'atmosfera di isolamento che aveva pervaso ogni sosta. Superata Argo, caotica ed anonima, quanto antica e potente, sono loro, le mura di Tirinto, a marcare idealmente questo passaggio. Ciclopiche, come sono sempre state definite, spettrali, benchè sia giorno pieno, quasi mostruose. Blocchi giganti che soltanto esseri mitologici avrebbero potuto spostare, ed invece sono lì quel che ne resiste, al tempo ed alla profanazione, vestigia di una città stato che per queste mura mastodontiche era famosa, tagliate dal sole che ormai inizia a calare, e radente allunga ombre nette e, verrebbe de dire, ultraterreni. Suggestione, tra storia e mito, ancora una volta, e non potrebbe essere altrimenti, su questa terra rugosa e ricca di passato. Nauplo e lì, alla portata degli occhi, la fortezza di Palamede chiaramente visibile, e l'eco del mondo moderno già percepibile si distende fino a lambire la nostra presenza.



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