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Immagine del redattoreoytis

Parte Nona - Il deserto delle parole


 


"...Ed ecco una volta, in primavera, mentre stava cuocendo del montone curato in inverno, fece sedere uno accanto all'altro i suoi cinque figli, e dette a ciascuno un'asta di freccia perché la spezzassero. La spezzarono facilmente. Allora, essa gliene dette cinque per uno, legate insieme, con la preghiera di spezzarle. Tutti e cinque le afferravano, le stringevano nei pugni, ma non riuscirono a spezzarle..."



Ho raccolto così tante immagini per questo post, che non saprei scegliere. Le ho raccolte nel silenzio, quello di un paessaggio che con la sua vastità era una presenza costante, e quello di una barriera linguistica praticamente insormontabile. Laddove, spesso, non arrivavano le parole, nella loro coreografica essenzialità cercavano di arrivare i gesti. Perché questo viaggio, ancora prima di tutto  per sopravvivenza, non può precludere dalla gente, che in questo paesaggio si collocava come puntini minuscoli sparsi negli angoli più impensabili, e che erano un riparo sicuro da quello stesso paesaggio, approdo di chilometri e chilometri di strada sterrata e piste improvvisate.



Credo che qui, più di ogni altro posto, l'ospitalità sia elemento essenziale della vita. Per un popolo che rimane nomade, strettamente legato alla terra, alla natura, ed alle sue intemperie, ospitalità é un dono innato che fa parte della quotidianità. I Mongoli sono giustamente famosi per questo. Nonostante ciò, nonostante di giorno in giorno questo dono mi si manifestasse, non ho smesso di rimanere sorpreso dalla generosità e dalla semplicità con cui mi veniva offerto. Ho visto gente svuotare completamente la propria gher, perché potessimo mangiare e dormire la notte, anche quando questo equivalesse a svuotare la propria casa ed ammucchiare i pochi oggetti a ridosso dell'esterno, in attesa di una notte di gelo e di neve. Ho trovato persone pronte ad accoglierci lungo la strada, quando uno dei furgoncini é rimasto guasto per ore, ed a distanza in ogni direzione non si scorgeva che una jurta a perdita d'occhio. Zucchero, té ed un burro ricco e cremoso, e magari pure un bel po' di vodka, comparivano all'istante, al centro di un unico tavolo, opposto alla caldaia centrale dove ardeva combustibile animale. Siamo scesi infine sul far della notte, una sera - manco a dirlo - nel mezzo del nulla: come va la giornata, come stanno gli animali, possiamo dormire da voi. Tutto questo trovava sempre porte aperte senza esitazioni, in cambio di dolci e cioccolata. Nessuno denaro, per il nomade che soccorre il viaggiatore.



Abbiamo fermato la macchina, come altre volte. Il festival delle Aquile ci attende, colmo di aspettative, ad un giorno di viaggio, ed il freddo degli Altai già si fa sentire in tutta la sua intensità. Il vento gelido che spazzava a raffiche ci ha investito appena scesi, come altre volte.a fianco della strada galoppavano cavalli che si rincorrevano in una mandria di bovini. Il profilo che agilmente si muoveva dietro di loro era di un cavaliere che si lanciava da un lato all'altro sprezzante del vento. Ci ha scorto appena abbiamo rallentato, e con una mossa decisa ha galoppato verso di noi. E' un ragazzo giovane, dal sorriso sincero, così come si rivela una volta vicino, quando inizia a togliersi sciarp e berretto. Si china su di noi, per stringerci la mano, uno ad uno. E, complice del momento, aggiusta la criniera del suo destriero, perché sia una star su una foto. Continua a sorridere, e sembra che il vento gelido interposto tra noi e lui assorba un mondo di parole. Ancora una volta, la nostra comunicazione senza parole passa da un gesto semplice ed un sorriso genuino. Per me questo é l'incontro con i gauchos cui tanto agognavo in Patagonia. Poi, con lo stesso colpo repentino di redini, volta il cavallo e si rilancia al galoppo. Per scomparire da dove era apparso.



Se questa lingua così inaccessibile e lontana rimane una barriera, nella musica si trasforma in qualcosa di nuovo, un unico canto continuo che risuona nel vuoto del paesaggio. Così é, il corpo, il torace ampio che diventa cassa di risonanza e le corde vocali che vi vibrano toccate nel vivo, senza pausa, senza un respiro. Un unico, ancestrale lamento, come non potesse essere che questo a sopravvivere nella pianura desolante della steppa, nella furia dei cavalli al galoppo, nella rabbia del vento. Dal profondo di dove nasce, accompagnato sallo strofinare sulle corde tese si uno strumento affusolato, penetrano nella notte, quando tutto sembra concluso ed un fuoco quasi sacro é ciò che rimane sotto un tappeto di stelle, e penetrano nell'animo stanco, forse pure leggermente piegato. Questo canto, senza parole, senza respiro, é quella connessione magica e mancante che le parole normali raramente possono creare.



Quando compaiono all'orizzonte sono una nuvola di sabbia e polvere che lentamente si avvicina. Sono motociclette cariche di una famiglia intera, un uomo ed una donna avvolti in un giaccone rude e pesante, e lo sguardo di un bambino - magari anche due - che sbuca dal manubrio. Arrivano, da un villaggio apparso in lontananza, caricano qualcosa da questo edificio che sulla strada sembra una stazione di posta, magari due cibi dalla scelta scadente, od un oggetto ingombrante per la casa, o chissà che altro, e ripartono in direzione inversa. E' difficile collegare queste immagini con la vita cittadina ed a tratti un po' posh, che si respira ad Ulaanbataar, forse in modo più intenso, dato che sono gli ultimi giorni. Forse é semplicemente uno specchio per le allodole. Perché se é vero che oltre la metà della popolazione vive nella capitale, é anche vero che questa degrada rapidamente nel paesaggio tipico dei villaggi sparsi nella steppa, nelle strade polverose e nelle file di gher alimentate a carbone, recintate da muretti improbabili, e connesse ad un generatore ed una parabola. Il che contribuisce a fare di questa città uno dei luoghi abitati più inquinati del pianeta. Solo, non scompaiono all'orizzonte quelle motociclette comparse da lontano.



E' difficile tradurre, prima ancora che comprendere, l'anima nomade e lo smisurato senso di libertà che si lega al territorio con questo stile di vita, con quello che - almeno credo - sia la percezione stessa della vita e dell'esistenza, con queste immagini, come se questo fosse un prezzo cercato e voluto per quella stessa libertà, se insomma debba essere necessariamente così, un po' trasandato, abbandonato a delle forze esterne ed incontrollabili, in un mondo di sopravvivenza e difficoltà oggettive. Mi sono chiesto spesso cosa significasse questo nello sguardo di un bambino, nelle possibilità che questi potesse avere, da una tenda smontata e ricostruita nell'arco di ore, dove ogni cosa si svolge entro uno spazio unico del raggio di pochi metri, nella codifica dei rapporti sociali e familiari. Ciononostante, tutti i bambini accedono alle scuole nei villaggi e nei collegi. E' come se tutto fosse consapevole ed ordinato, in un incontro continuo tra modernità e mondo antico. E per questo la povertà che ho osservato non era quella lancinante e sovrastante di altri luoghi che ho attraversato, ma piuttosto una conseguenza consapevole di un modo di vivere, legato certo al terreno ed alla storia, ma al tempo stesso ad uno spirito ed un mondo costruitovi attorno.



Mi rendo conto di non aver ancora scritto niente. Ogni volto che si fermava a fissarmi attraverso l'obiettivo, un gruppo di bambini sull'uscio di una porta, un uomo a cavallo nella tormenta di neve o lo sguardo fisso di una famiglia sulla motocicletta, il guidatore del pulmino sgangherato, con i suoi occhi iniettati di sangue, o finanche uno di quei cavalieri delle aquile i cui occhi sfidavano quelli del proprio compagno di caccia. Il desserto delle parole é il silenzio che mi separa tra di loro. Ho raccolto il contenitore di latta colmo d'acqua, ho preso una delle mani ora libere della bambina che era scesa al fiume a raccoglierla. In qualche modo, sono riuscito a capire dalla madre il suo nome, che colpevolmente non ricorderò. Ma per un attimo, ho cercato l'illusione di un dialogo silenzioso. Osservo una ragazza vestita di blu, mentre suona il Morin Khuur. E' molto bella. Ed é un saluto, nel silenzio interrotto solo dalle note. Ogni sguardo mi osserva, in silenzio, o in una lingua che nemmeno mi permette di ricordare facilmente un nome, in un paesaggio infinito, come questo deserto, di centinaia di anni.



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