23-26, 29 Maggio 2014
Venerdì. Sono appena arrivato, investito di colori e sapori che sprigionano dal mercato. Avvolto dall'aria calda e quell'atmosfera caotica e rumorosa di una città araba. Eppure le persone che animano le strade non sono arabe. Quasi nessuna. Piuttosto, figure vestite di nero, abito lungo ed ampio cappello, una barba lunga e delle trecce ai lati. Improvvisamente, questa immagine che conosco pur senza averla mai veduta in realtà è tutto attorno a me. Mi sento incredibilmente lontano, estraneo. Mancano poche ore, e sui banconi si contrattano gli ultimi shekel. Poi, al tramonto, sarà Shabbat, tutto di colpo si fermerà, calerà il silenzio. Tutto freme, ora, in attesa di quel momento. In attesa di scendere, lungo le vie della città vacchia, una volta superata la porta di Giaffa, attraversare la strade strette traboccanti di oggetti in vendita, infilarsi tra le vie del suq, che sembrano quasi cunicoli. Cristiani, arabi cristiani, arabi musulmani, gente che esce ora dal Monte del Tempio. Venerdì è giorno sacro per l'Islam. Mentre due strade più su sale la Via Dolorosa, le stazioni della Passione a volte scompaiono dentro un caravanserraglio, ed infine terminano nel chiostro in decadimento del monastero copto. Un uomo vestito di nero, la faccia scura, si confonde nella penombra di una finestrella dietro una grata. Il Sacro Sepolcro è poco oltre, passando un cunicolo che conduce alla piazza. Pellegrini ripercorrono su questi passi la Passione di Cristo. Io, io mi sono già perso. Travolto dai richiami dei minareti, la folla che sale trascinando una croce, e le sagome dei chassidim che si preparano alla preghiera. Penso che questo da solo dovrebbe essere un inno alla pace, invece di essere l'intonazione di un canto di guerra. Stavo scendendo, certo, lungo la città vecchia e mi trovo a risalire, lungo il percorso del Calvario, e camminare nel luogo sacro che vi si erge sopra. Nel silenzio che ispirano i volti contratti, la fiamma ondeggiante delle candele di cera di miele appoggiate contro una parete, nell'oscurita delle arcate di pietra, urtato dal viavai di cerimonie che si alternano quasi salmodiando e quasi sgomitando l'una con l'altra. E qualcosa che aggiunge ed al tempo stesso toglie sacralità al luogo dove mi trovo. Torno indietro, torno lungo quella strada in discesa. Mentre pervadono l'aria gli ultimi raggi di sole. Seguendo a debita distanza quelle figure nere che a volte nelle strade anguste ed ombrate mi turbano come se fossero spettri. Difficile distinguere, capire, ora che sono appena arrivato. Arrivato, infine, sì, di fronte ad un Muro, alla base del Monte. Il luogo più sacro nel momento piuù sacro della settimana ebraica. E quello che mi colpisce è l'incredibile varietà che confluisce in un unico denominatore: la gioia della festa, forse davvero come dicono loro la celebrazione della vita, attraverso i canti, abbracciati in cerchio, come facevano i pastori del deserto. Altri invece oscillano, poggiando sui talloni, avanti ed indietro, appoggiando una mano sulle pietre enormi del Muro Occidentale, chi anche il capo, chi ergendosi fisso in posizione eratta. Tutto quello che colgo, in un calderone di persone che affollano questo spiazzo, osservando la sera che scende e le innumerevoli immagini di fronte a me, è una sensazione di felicità mista ad un profondo sentire.
Rieccomi lungo la stessa strada. La mattina è già calda e silenziosa. Come la luce che filtra dalla cupola della Basilica del Santo Sepolcro, sovrapponendosi ai riflessi dei mosaici ed andandosi a posare sulle arcate di pietra. Pietra, appunto. Quella bianca degli edifici della città vecchia, estratti dalle cave mitiche di re Salomone. E quella che scende, nel cuor della terra, trasudando gocce d'acqua e storia. Perchè questa è una delle sensazioni che mi colpisce più intensamente. Imboccare una porta, scendere dei gradini e penetrare nel corso della storia. La storia di Gerusalemme, innanzitutto, della vecchia città di Re David, posta altrove, in realtà, rispetto al Tempio ed alla città vecchia. Tutto ruotava attorno all'acqua, il bene assoluto. Allora una strada scendeva alle piscine di Siloe, e doveva essere magnifica e colma di vita; ora non è altro che un tunnel, lunghissimo che dalle piscine riporta al tempio, e corre parallelo ad un altro tunnel, straordinario ed ingegnoso, che assicurava l'approvvigionamento d'acqua alla città da una sorgente segreta. La storia del Vangelo, con i luoghi della Passione e del culto. Ancora, si scende, nell'oscurità, per toccare con mano le pareti della prigione, e quelle della sofferenza. Ogni luogo ha un'ubicazione precisa, a volte anche più di una, tra tradizione e testimonianze tramandate che fondono storia e credo. Tutto quello che ci viene tramandato, che fa parte della nostra cultura, lo abbiamo scelto o no, trova riscontro e rappresentazione qui, a Gerusalemme. Non è necessario essere ferventi religiosi per rimanere colpiti da tutto questo, dalla forza di camminare su queste stesse pietre di cui narrano libri sacri, di cui parlano i Vangeli, di cui siamo stati cresciuti. Toccare con mano la pietra di migliaia di anni, quella che ha visto le distruzioni del Tempio, le rivolte soffocate nel sangue ed il Sangue del Dio fatto uomo, il sangue di coloro che hanno combattuto, distrutto, ucciso e ricostruito nel nome di una o un'altra religione. E' come se tutte queste pagine di storia rieccheggiassero, una sopra l'altra, rumori infiniti che rimbombano, come una goccia d'acqua che dal soffitto di una parete grezza scavata a colpi di piccone cade nell'immensità di una di quelle cisterne sotterranee scavate nel cuore della terra. Perchè gli antichi lo sapevano e lo temevano, non c'è vita senza acqua.
Sotto un sole cocente sale la strada lungo il Monte degli Ulivi. Attraversando un'immensa distesa di lapidi bianche e piccoli sassi depositati sopra. Uno dei cimiteri più antichi ed utilizzati ininterrottamente al mondo. Perchè qui, per gli Ebrei, avverrà il Giorno del Giudizio. Di fronte, dirimpettaie, le lapidi di un cimitero musulmano. E nel mezzo, appunto, gli ulivi. Quelli del Getsemani, innanzitutto, alcuni di essi hanno davvero vita millenaria. Ulivi, come vita, come profumo. Quello del paesaggio Mediterraneo. Questa parte della città si estende in realtà nella zona araba e, con la valle del Cedron, in direzione dei Territori. Gli ulivi sono storia, ma sono anche vita contesa. Io, invece, risalgo lentamente, lungo questa strada colma di testimonianze e di luoghi ricchi di significato. A volte, calandomi nuovamente entro anfratti e rocce scavate, a volte respirando un alito di vento che sale con me. Gerusalemme appare splendente e pacifica, da quassu, con la cupola della roccia che risplende, sempre più dorata man mano che il sole inizia a scendere, con le sagome degli edifici che ho lasciato alle spalle, in una giornata intera, che si distinuono in ogni direzione. E da questa prospettiva, di attesa, di silenzio e di tranqullità, così differente dal brulicare infinito di cui facevo parte anche io la città appare ancora più bella, più scintillante, più eterna. Perchè eterna l'hanno resa i popoli, i personaggi che l'hanno attraversata, fermandosi o soltanto per sostare, eterna la rendono le persone che la popolano ancora oggi, così come quegli arabi che la osservano con me, con qualche altro turista e qualche altro viso occidentale, da questo punto sacro ai piedi del quale ondeggiano fronde di ulivi antichi migliaia di anni, una sera qualsiasi.
Sembra incredibile. Eppure è così. Nelle prime ore della mattina sono salito al Monte del Tempio, ho osservato da vicino la Cupola della Roccia e camminato attraverso la Spianata delle Moschee. COme altri luoghi di culto, anche questo enorme spiazzo è in realtà un'oasi di pace e silenzio raccolto entro le sconfinate vie di Gerusalemme. Ho osservato le donne condividere il pane, i bambini correre di qua e là, magari con qualche arma giocattolo in mano, e sbirciato gli uomini che si purificavano prima di entrare scalzi nelle moschee. E' così. Sono sceso, lungo un'uscita secondaria e dopo pochi minuti le mie mani poggiavano su una di quelle pietre enormi che costituiscono il Muro del Pianto. Con la kippa sul capo che rischiava di essere trascinata via dal vento. Ho chiuso gli occhi e, accompagnato dalle parole incomprensibili di un salmo, ho lasciato in un anfratto del muro la mia preghiera e quella della mia famiglia. Accanto a me un uomo piangeva, letteralmente, addossato al muto, mentre un altro, rosso in volto, sfiorava anch'egli la pietra già calda del sole. Più indietro, un ragazzo leggeva la Torah, per la prima volta, attorniato dalla propria comunità ed abbracciato infine dal rabbino che celebrava la Bar Mitvah. Tra immensi cordoni di sicurezza, per la visita del Papa, ho girovagato per le strade bianche ed ordinate del Quartiere Ebraico e sono arrivato nella zona più a nord, denominata Quartiere Armeno. Qui, in Armeno, una decina di officianti, seguiti da 50/60 ragazzi, ognuno vestito secondo il proprio ruolo, celebravano la messa completamente in lingua cantata, secondo il rito ortodosso. Avvolto dalla penombra, dall'incenso e dai riflessi che a tratti apparivano e scomparivano, dentro questa chiesa ricchissima, dove tutto in realtà si scorgeva come un contrasto di ombre e rara luce abbagliante che penetrava attraverso il portone. Non ho saputo muovermi di lì per tutta la celebrazione. Tutto questo in poche ore, senza nemmeno uscire dalla cinta di mura medievali. Come quei canti che si erano mescolati il venerdì, appena arrivato. Questo rende Gerusalemme indivisibile, troppo intricati i percorsi della storia che si sono intrecciati ed hanno piantato radici, troppo intense le emozioni ed il sentire. Questa è l'eternità di una città che raccoglie anche le mie radici, come cultura, come insegnamenti, come uomo. Questo, a mio parere, dovrebbe renderla città libera, inno di pace e luogo da visitare, almeno una volta, nella vita. Questo, non è.
Da visitare, anche se appesantisce il cuore. Verso la periferia della città, su una collina non strappata alla foresta, sorge il memoriale della Shoah. Attraverso edifici, parti museali e luoghi commemorativi. Attraverso fiamme che non si spengono, nomi di bambini ripetuti senza soluzione di continuità ed altri nomi, terribili, scolpiti su lastroni di pietra. Altrove, un vagone di legno è fermo sulla prima campata di un ponte interrotto sospeso nel vuoto. Perchè sia necessario arrivare sin qui, non è sono per rendere omaggio ad una tragedia immane, ma anche per comprendere un popolo ed una nazione. Quella di Israele, appunto, fondata sul principio che ci sia un luogo dove ogni Ebreo possa trovare rifugio, ma anche la volontà di preservare la vita e la propria identità. Un senso fortissimo di identità, che è missione proteggere e tramandare. Inno alla vita, mi ripetono in molti, durante il mio viaggio, come lo ripetono nelle parole dei salmi stessi. A volte mi riesce difficile combinare questo con l'immagine degli Ebrei ultraortodossi, gli haredim, quelli che ho visto per le strade di alcuni quartieri, abbandonati dal tempo ad un secolo fa, figure a volte inquietanti, avvolte di nero, inavvicinabili per me. Come le donne, col capo coperto, forse rasato, ed i vestiti umili che coprono ogni parte del corpo. Spesso giovani, giovanissime, in compagnia di uomini decisamente più anziani, circondate da uno stuolo di bambini e col pancione in attesa. Sono immagini che si sono impresse subito nella mia mente, così come quelle dei soldati, praticamente ovunque, colti in ogni momento con il kalashnikov in spalla, compagno costante di un servizio che esige due o tre anni, a seconda che sia donna o uomo. Ragazzi armati, in giro per strada, in divisa, e magari con la borsetta o la mano nella mano di un fidanzato o una fidanzata. Anche questo, in quelche modo, ha una chiave di lettura qui, in un senso di accerchiamento, sia reale e fisico, ma anche psicologico, che porta ad una visione della situazione politica secondo una direzione ben precisa, ad un relazionarsi con lo stesso occidente in modo particolare, secondo una sindrome da accerchiamento ed un perenne stato di guerra (come di fatto è in realtà il Paese) che interpretano come antisemitismo in maniera ben diversa, e non sempre condivisibile, gli avvenimenti nel mondo. Quel mondo, diviso, di cui Gerusalemme rimane l'emblema.
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