10-11 Giugno 2014
L'azzurro sembra essere il colore più famoso di Tsafat. L'azzurro qui ha un valore altissimo e profondo. Segue come un orlo le linee delle case, delle strade, delle ringhiere. E soprattutto é il colore riservato ai più meritevoli, nel mondo ebraico e nella cultura ebraica: le loro tombe brillano quasi come topazi preziosi nella distesa di lapidi candide e senza tempo che si incastonano sul fianco della collina. Qui, probabilmente, affonda le proprie radici l'Ebraismo moderno, qui le sue menti più fini hanno formulato le basi dell'interpretazione delle Scritture. E' un pensiero molto affascinante che rende questo luogo particolarmente ricco di significato. Anche per me, che lo attraverso con gli occhi del viaggiatore. Che, in qualche modo si specchiano in quelli di chi, magari, viene da lontano a conoscere le proprie origini. E' qualcosa di estremamente potente, in questa cultura, quello di tornare alla terra, alle origini di un sentimento che affonda nelle pieghe ancestrali del tempo, e si riflette in gruppi di ragazzotti americani magari sbracati ed un po' incoscienti dello scopo per il quale si trovano qui come nei passi lenti di una ragazza dalla gonna lunga che cammina lentamente da sola e a piedi scalzi in un Paese lontano un oceano da casa. Me scendere per le strade di Tsafat equivale anche ad immergersi in una realtà in cui il tempo sembra essersi fermato ad un istante impreciso ed immutabile. Immutabile come l'aspetto delle persone, vestite tradizionalmente e tradizionalmente riservate, chiuse in un mondo di studi e meditazione, ripopolano i quartieri vecchi soltanto nel tardo pomeriggio per riappropiarsi delle strade quando i visitatori se ne sono andati. Camminare in silenzio, una seconda volta, quasi con la paura di risultare scomodo ed un disturbo, in questo momento della giornata, dischiude un mondo immobile, in cui la forza percebile di alcuni legami fa da contaltare allo sconcerto di una prospettiva esterna di fronte a questa immobilità ed insolvenza sociale, straniante come in altre tappe appena sfiorate nei giorni passati.
Ecco, scendendo tra i vicoli labirintici e mantenuti come fossero scorci di un'incisione, si diramano gallerie d'artisti, oggetti, pitture e gioielli, colori sgargianti e candele colorate. Come un villaggio di pan di zenzero. Eppure tra tra tante musiche e colori, questo luogo intriso di significati ed interpretazioni si trova ai margini di una regione contrastata e contesa, così come ai margini della storia. Una storia cruenta. O forse sarebbe giusto dire, due storie. Che a fronte di quella narrata ce ne sarà sicuramente una versione differente. Quella narrata parla di un'eroica e strenua resistenza, infissa nelle rovine di una postazione di polizia, sui muri delle sinagoghe marcati di colpi di proiettile, sul ciglio di un bastione dove si staglia il profilo di un mortaio.
Sì, sono al confine, attraversando le alture del Golan. Sono al confine quando i mezzi militari incrociano la strada e le basi si intravedono o si immaginano tra distese di campi, spesso recintati ed inaccessibili, abbandonati a se stessi, dietro un cartello che avverte della presenza di mine disseminate nel terreno da decenni e mai più bonificate. Sono al confine quando il cielo si rabbuia, sotto un nuvolone grigio, e leggermente mi riparo camminando tra le linee di un bunker ora abbandonato che da una di quelle alture spia e controlla una manciata di chilometri più ad est. Un paesaggio bello e dolce che declina leggermente in campi colorati e frammentati. Eppure, questo é uno stato di guerra, un po' come ovunque in questo Paese piccolo e conteso in realtà ma qui ben di più, con gli occhi puntati di fronte alla Siria e su, a nord, verso il Libano. Da qui si scorge tutto, a trecentosessanta gradi, la terra nemica, quella contesa e quella difesa. La bellezza deturpata dalla follia, invisibile quest'ultima ora, latente in questo momento di silenzio, eppure palpabile, sempre, nelle circostanze, nel tracciato di un bunker, nel profilo di immagini che ricordano quelle di soldati con il fucile spianato. Ombre. Tutto narrato con epica enfasi e sentimento della patria. Accerchiati.
E' una altro estremo. Verso nord, un ultimo lembo di terra che si insinua come una propaggine. La "good fence" é a pochi chilometri. E nemmeno riesco ad immaginare come la strada possa interrompersi, scomparire. Eppure il paesaggio, la natura, non se ne curano. L'acqua sgorga bella ed azzurra da una cascata aperta sul vuoto. Sentieri alberati ne seguono il corso, per sgorgare di fronte ad un palazzo di epoca romana ed alle vestigia di un tempio scavato nella roccia. La suggestione del tempo. La stessa che si respira su una fortezza impiantata sul culmine di una montagna. Costruita non si sa come. Una fortezza crociata. Imponente, dietro mura spesse metri e passaggi segreti che vi scendono dentro come lame di coltello piantate nella roccia. C'é un vento che spazza via ogni cosa, quasi a ribadire la potenza di questa postazione. Cammino muovendomi tra blocchi di pietra che quasi raggiungono la mia altezza. Cammino sporgendomi sul ciglio di un bastione spaccato, l'azzurro del cielo laddove c'era un muro ed una stretta feritoia a scorgere questo paesaggio bellissimo. E tutto Israele, idealmente, che vi stende ai suoi piedi, a perdita d'occhio. Da punti come questi non é difficile comprendere perché questa regione sia tanto importante, anche da un punto di vista strategico. Ed io che, quasi, vedo come puntini lontani tutte le tappe del mio viaggio, ora che sento sta per concludersi. Come vedessi le acque azzurre dei laghi chiamati mari, il deserto, le città contese e quelle dove invece si é riusciti a convivere. Del resto, questa é una fortezza costruita per questo, ai lati di una, infinite guerre, sul passaggio di truppe venute da lontano. Nel silenzio che regna quassu, embra quasi di sentirne il clangore delle armi, l'accozzare del metallo. E' caduta, é stata distrutta, é stata ricostruita. Ed ora giace, infine, muta, alla rabbia sbuffata del vento e ad uno scorcio che si apre tra le sue mura.
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