Difficile definire con che stato d'animo mi trovi su questo bus. Un po' per la città ed i giorni che mi lascio alle spalle, un po' perchè è come aprire una pagina bianca. Salito a Gerusalemme Est, direzione un confine che c'è e che non c'è. Tratteggiato sulla mappa, esiste come il muro che lo marca, non per gli occhi di chi questo muro lo controlla...
29-31 Maggio 2014
Osservo Betlemme con gli occhi e le parole del mio ospite, un Palestinese cristiano maronita. Anche lui, come tutte le persone che ho conosciuto qui, è un resistente. Racconta, fin dalla sera, porgendomi le mele piccole e leggermente aspre del suo giardino, che mi ricordano quelle della casa a Sano Rocco del nonno, così come le foglie di menta ed i biscotti fatti in casa. Racconta, inseguito dalle mie domande, dai suoi discorsi e dalla storia della sua vita. Che, a mio parere, rappresenta bene ciò che questa terra è. Palestinese, senza passaporto, ed i figli divisi tra la propria terra e l'essere in cerca per il mondo, un'operazione avveniristica allo stomaco fatta nel più importante ospedale di Tel Aviv. La moglie è oroginaria di un luogo che dista meno di dieci chilometri in linea d'aria, un luogo chiamato Gerusalemme, eppure per la legge nessuno dei due potrebbe legalmente fermarsi a dormire nella casa dell'altro, così come non può guidare la macchina dell'altro. La resistenza di quest'uomo, e dell'intera famiglia, sono l'intaglio del legno d'olivo, profumato e nodoso, e soprattutto, a suo modo, la religione. Ancora una volta. Perchè questa è la versione cristiana, della storia. Quella della comunità che sta scomparendo, fuggita, che non si trova riconosciuta nè in una nè nell'altra parte. Che gli scontri ed i dispetti reciproci sono a trecentosessanta gradi, senza distinzione. Che non ci sia acqua, invece, lo sperimento di persona, quando una volta arrivato mi viene chiesto di farne un uso responsabile, che da una decina di giorni si sopravive solo con i serbatoi sui tetti delle case, che i rifornimenti sono chiusi. E' qualcosa che fa contrasto con le piscine nel deserto che intravedo, tra gli insediamenti e che vedrò soprattutto nei giorni a venire, nella torrida caldera del Negev. Il mio ospite mi prende in simpatia, perchè discute molto, lo fa la sera così come tutto il tempo che si è offerto di portarmi nei dintorni di Betlemme. Dalla collina dell'Herodion, tra spettacolari vedute del Deserto di Giuda, mi indica le colline dalle cui pendici colano gli insediamenti. Non ci sono muri, là, come se potesse davvero esserci una convivenza pacifica. Perchè, esplode ad un certo punto, il muro lo divide da se stesso, il muro lo divide da ciò che ama. Mi domanda come sia possibile pensare che questo fazzoletto di terra, accerchiato da ogni sicurezza possibile, possa approvvigionarsi di armi, quando lui non può fare niente senza che qualcuno dall'altra parte lo venga a sapere. Credo sia un punto delicato, su cui si potrebbe discutere a lungo, anche se è un pensiero anche quello, che una guerra sia qualcosa che fa comodo a molti, ed il business della tensione sia qualcosa da alimentare costantemente. Mi viene in mente la guerra tra stati del romanzo di Orwell... Ed alla fine, insomma, non si capisce bene da che parte stia, in una situazione nella quale la comunità araba cristiana perde comunque, quale possa essere la sua soluzione. Che alla fine tutto ciò che vedo rimane così intrinsecamente allacciato, così complicato ed indivisibile che non ho una risposta, se non quella di un uomo anziano che, per le vie polverose di Jericho mi invita a sedermi e raffreddarmi all'ombra. Dai suoi occhi e dal suo sorriso colmi di vita e di saggezza, mi sussurra che non ha importanza come lo si chiami, noi esseri umani siamo creature di uno stesso Dio e che definirne un nome non serve per fare di un'uomo una buona persona, per determinarne l'amore per la terra o per la propria famiglia.
Ecco, da una collina fatta erigere e scavare da un re della Giudea, proprio quell'Erode, per la prima volta osservo il deserto. Aspro e montuoso, fatto di wadi scavati sui fianchi delle montagne drenate. Sono sempre profondamente scosso dalla bellezza silenziosa di questa manifestazione della natura. Ecco, la macchina attraversa una strada, supera un incrocio. E già non si capisce più niente di zona A, zona B e zona C, se non fosse per dei blocchi di cemento posti ai lati della strada come i ceppi dlle antiche vie romane, e per i cartelli che proibiscono l'accesso agli Israeliani, a rischio della loro incolumità. Mi ritrovo nel deserto, ad osservare dell'alto un monastero sospeso su un canyon, o sulla strada delle antiche piscine di Re Salomone. Eccomi, in macchina, superare una manifestazione di persone urlanti: perchè è venerdì, e gli uomini sono appena usciti dalla moschea in uno di quei villaggi che sono campi profughi. E nel cielo, tra slogan e proteste non sventolano solo bandiere della Palestina, ma anche quelle verdi di Hamas e quelle gialle di Hezbollah. La tensione è palpabile, come l'aria che respiro. Ecco, infine, sono per le strade di Betlemme, mi inchino per oltrepassare la Porta dell'Umiltà e scendere infine nel cuore della Basilica della Natività, come un attimo di respiro concessomi oltre un turbinio di immagini e sensazioni. Nella piazza antistante la guida turistica dell'Occupazione mostra lo stesso luogo avvolto nel fumo durante un'azione militare israeliana: un'ombra dietro una cortina impenetrabile, che accompagna le didascalie. Anche se non riesco ancora una volta a tracciare linee così nette, come fanno delle ragazze, volontarie, qui. Me le presenta un omone simpatico che prepara "il thè più buono della Palestina" dentro il suo garage improvvisato a bar, mentre gioco a pallone con due bambini. Uno, tre, sei mesi, vivendo oltra il muro di sicurezza. Io racconto di Hebron, di Gerusalemme, del mio ospite. Una, poi, mi racconta l'esito di quella protesta, cui lei ha deciso di prendere parte. Provocazioni reciproche e fermi. Un po' spavalda, "oltre", in quello che dice, perchè il punto è, mi domando, se sappia sotto quali colori ha urlato la sua protesta portando i diritti umani nel cuore.
L'ospitalità di questa gente è incredibile. E si manifesta in cose incredibilmente piccole, una tazza di thè, un bicchiere dell'acqua, una sedia all'ombra. Lungo le strade polverose di Jericho, sembra di vedere la proiezione di uno stato Palestinese che sarà. Un po' lontana dai fuochi, dai muri, dai confini più assurdi, immersa in quella storia che affonda all'alba dei tempi e la renda la città più lungamente abitata senza interruzioni. Sembra incredibile trovare qui, sotto un albero centenario, un uomo che vende spremute d'arancia che torna nella sua terra dall'Olanda. Sì, prorpio pochi chilometri da me. E' un rifugiato palestinese, con passaporto da quasi vent'anni. Eppure le sue vacanze sono qui, tra la polvere a spingere il suo carrettino e parlare in accento brabante di integrazione, di sapore della terra e quello che porta negli occhi goni giorno con sè. Ecco, sotto il sole cocente, in una città sonnacchiosa che è già deserto sale una strada verso un piccolo monastero incastonato sul fiancone del Monte delle Tentazioni. A me viene in mente un edificio simile, e ben più sospeso che ho visto dall'altra parte del mondo. Asciugo la fronte madida. E l'uomo a cui chiedo la strada insiste, insiste perchè accetti di svuotare la bottiglietta d'acqua che ho perchè l'ha sfiorata con le mani prima che andassi e vuole che prenda acqua fresca. E' un gesto che neel deserto vale un po' più di qualcosa. E' così. Lungo la strada, dallo stretto balcone che dal monastero si sporge sulla roccia, su uno di quei taxi collettivi, o la sera all'angolo di una stradina di Betlemme. Un uomo si improvvisa un po' panettiere, un po' pizzaiolo, di quelle pizze arabe, focacciose e sovrastate di una salsa di olio d'oliva e sesamo. Con una bombola di gas ed un forno allestito dentro una fornace arrugginita. Un po' come l'altro mio amico qui, che mi invita a prendere il thè più buono dei Territori, buonissimo per davvero, preparato con una ricetta che è un'improvvisazione ed una gioia strenua per la vita.
Il taxi gira, svolta, si ferma. Quello che ho dinanzi si alza otto metri sopra di me, corre come un serpente e come un serpente si avvita in curvature estreme e si insinua lungo percorsi frastagliati. Quello che ho dinanzi è grigio ed allo stesso tempo una successione di colori ed una linea continua di poster sui quali si raccontano storie. Quello che ho dinanzi è un muro che sembra non finire mai, non tanto nei suoi percorsi in linea orizzontale, dove ad ogni angolo può inframmezzarsi in una torre di guardia, quanto verso il cielo. E' il muro. E' quello che divide Michael da se stesso. Lo stesso che dei quattro lati disponibili attorno una casa ne percorre tre. Quello che non mi fa vedere Gerusalemme, gli olivi e neppure le case nuove che dalla cima di una collina scendono giù come fossero slavina. E magari si moltiplica in linee di ammortizzamento in alcune zone, tra un campo di cemento e cumuli di mattoni accatastati. Non si sa se siano muri di una casa distrutta, qualcosa di abbandonato o qualcosa da costruire. Magari qualche bambino vi si sta arrampicando, come una metafora ed uno di quei disegni posti là dietro, sul muro vero, quello alto e recintato. 1948-? Come l'indicazione stradale che trovi sulla strada quando entri in un paese. Questo, è un campo profughi. Sento un senso di oppressione in tutto questo, nel senso di peso al cuore. Lo stesso peso con il quale sono uscito dallo Yed Vashem, a Gerusalemme. Io in questo non avverto distinzioni. E' con questo stato d'animo che torno indietro, risalgo fino alla basilica della Natività, nuovamente mi inchino per attraversare la porta dell'umiltà. E qui, nella sera, tra le impalcature e la nebbia dei fumi di guerra che si vedono nella foto lì fuori e che idealmente sovrappongo, si celebra un matrimonio. Che la vita non si lascia strappare via.
Il controllo del bus procede liscio come una routine quotidiana. Parcheggio a lato, tutte le persone che scendono e si mettono in fila, aprono una carta, la mostrano, ogni tanto si accenna una mezza discussione ma alla fine risalgono tutti. Subito dopo è la volta del vano bagagli. Io no, non devo scendere. Col mio passaporto in mano ho questo diritto di rimanere seduto sul sedile ed attendere guardando fuori dal finestrino. E' una mattina qualsiasi, di una giornata lavorativa, domenica, ed io mi sento quasi in vergogna. Mentre mi allontano e lascio dietro di me due ali di cemento armato a protezione della strada, guardo fuori, ancora una volta. Il sole che è già caldo, limpido, e non sono nemmeno le nove. Il muro illuminato, dietro, case quasi circondate, disegni spray e poster attaccati. Davanti, invece, si stendono gli olivi, sulla continuazione naturale del terreno. Allora, è vero... Ho letto da qualche parte che i Palestinesi sono tradizionalmente uniti ai loro ulivi da un rapporto simbiotico. E non c'è da dubitarne, considerando la "religiosa" osservanza che le olive rivestono nella cucina arabo-israeliana. Nella mia mente porto con me una miriade di immagini ed un'infinità di domande senza risposta e senza comprensione. Ma sono molto contento di essere stato qua, di tutto quanto ho visto finora, non potevo richiedere più umana ricchezza da questo viaggio. E mi viene in mente un foglietto che ho strappato da un libriccino, una specie di mensile sulla vita e gli eventi culturali in Palestina, che in un certo senso risponde a me stesso, a quel poco che ho visto, ed alle mie domande. Ho tenuto questo foglietto strappato pensando a questo post, perchè è una breve testimonianza che mi è piaciuta molto e che riassume alcuni dei miei pensieri. E' scritto da una ragazza americana, volontaria, che immagino simile alle ragazze che ho incontrato a Betlemme. Con tutti gli stessi ma e però.
[...] Much of my time in Palestine has been spent listening and observing. I am here to learn, to serve, and to build relationships with people. As a foreigner, I have a lot of questions. [...] This is a beautiful land. I continue to marvel at the gnarled strength of the olive trees, as they stand strong and resilient on the terraces of the hillsids. I am intrigued by the multitude of new fruit trees that i have eaten from, and I am fashinated by all of the new insects and landscapes that I have witnessed. Admist the beauty though, I have seen devastating things too, such as the streams of untreated sewage running down from the settlements that are slowly digesting the Palestinian land. I've seen children tossing plastic wrappers out of the windows of the cars, smelled the toxic and unmistakable stench of burning trash, and I have learned to look past the piles of rubbish lining down the streets. [...] All that I have seen has inspired anew questions in me. My brain is filled with questions about human rights and the quest for justice, queries about how and when the Occupation will end, why the international community has not come to the aid of such beautiful people, and how we, as fellow human beings, can move forward for a sustainable future. Most of my questions go unanswered, but as I've looked out at the beautiful wadis and mountains that make up this land, I still have hope. [...] I know that no matter how long I stay in palestine, I will always be from somewhere else, that my homeland of origin is an ocean away. Yet, my current home is here. I feel connection to this land, a deep respect for the culture, and a love for the people I have come to know during my time here. As a young woman, a recent graduate college, volunteer, and a foreigner in this country, I might not be able to do a lot in terms of solving some of the extensive and daunting crises facing this land. I cannot end the Occupation, bolster the economy, or restore the Jordan River to its pristine state. What I can do, however, is be conscious of how my behaviours and actions impact the people and the world around me. Thought I cannot bring the Occupation to an end, I can tell the stories of the people I love here, speaking passionately and honestly about the hope and the faith of my host community, even admist the struggles and the injustices they face. When I return to my own country, I can and must be moved to action, urging the people in postiions of authority to pursue justice for the Palestinian people. I can influence and inform my friends and loved ones at home about the situation here and urge them to come and see for themselves. Environmentally, I can walk rather than take a taxi. I can carry a canvas bag rather than taking a half-dozen plastic bags when I visit my fruit stand. I can pick up the trash I see on the streets, rather than walk around it. None of these actions are going to change the situation overnight, but my behaviour and my actions will have an effect, no matter how small. Throughout the world, human behaviour shapes the environment in which we live. Your behaviour and your actions tell the story of what you value. This land is filled with so much history, beauty, and culture. Each of us has a role to play in caring and respecting the earth, and I invite all of us to recognise the power that lies in such responsability. Small things make a difference.
(written by Laura Mills)
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