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Il deserto, la prima volta


 


30 Agosto / 1 Settembre 2013

Non riesco ad addormentarmi. Come se fossi ancora in macchina, indeciso se proseguire o fermarmi. C'erano solo quaranta chilometri, ed il sole che iniziava a scendere. C'erano quaranta chilometri che si perdevano nella sabbia, fino a condurre alla fine della strada... Così, sono arrivato dove più avessi desiderato. Così, c'é un silenzio assoluto, la sera, col vento che sibila fin nelle orecchie, da un mondo ancestrale, indefinito. Così é calata la notte, la prima che passerò qui, e deciderò di fermarmi, di ascoltare, di sedermi ed osservare. La prima cosa che ho fatto... ho camminato quanto bastasse e mi sono seduto su una duna di sabbia. Mentre la sera calava, ormai, dopo avermi concesso gli ultimi bagliori di sole per arrivare e la Via Lattea compariva sopra di me come se un interruttore mai trovato fosse stato acceso all'improvviso.


"Non si vede nulla. Non si sente nulla. E tuttavia qualche cosa risplende in silenzio..."


Non riesco ad addormentarmi. Come se fossi già in macchina domani, su una jeep scassata che traballa di qua e di là mentre divora sabbia, sassi e rocce, mentre s'arrampica su vie che non si vedono. Non riesco ad addormentarmi perché nella notte alcuni pensieri trovano tutta la propria eco, e tra il caldo della stanza ed il freddo del deserto decido infine di girare il cuscino ed aprire la finestra: così avrò davanti agli occhi un angolo di cielo. Almeno, prima che delle lacrime ne offuschino la vista. Mubarak é il nome del ragazzo che su un motorino mi ha acciuffato arrivato in paese appena la macchina si é fatta vedere. E' riuscito a fare ciò in cui altri hanno fallito: semplicemente, farmi fermare. Una contrattazione rapida, e sono su una pista attraverso ali di sabbia. Mubarak ha una risata fresca, già ricontratta quando scendo dalla macchina e scherza dicendo che é il presidente pazzo del deserto. Poi, si interrompe. Si avvicina ad un'anfora che custodisce acqua fresca, beve da una tazza appoggiata e si lava il volto. Si allontana di qualche passo e di fronte al nulla, avvolto nel suo vestito blu e giallo si inginocchia su un tappetino. Terminata la preghiera, si rinfresca nuovamente, mi saluta con la sua risata aperta, dicendo che non ci sono altro che persone buone e persone cattive, e montato sul suo motorino scompare ormai nel buio.



Mubarak é anche il nome del padrone del luogo dove mi trovo. Non é un albergo, no, ai miei occhi é una "familia" come la intendevano gli antichi romani. Mubarak é uno dei personaggi con cui più sono stato a contatto in questi giorni marocchini. E' cerimoniale  e pomposamente serio quando si siede, versa il the, inizia gravemente a palare di affari e fare le proprie proposte. E' inafferrabile, come la sua risata sguaiata e la sua vera natura. Forse, semplicemente, per lui é normale così. Affermare che sei come a casa ma senza fidarsi al cento per cento, contrattare facendo pressione ed allo stesso tempo versando un nuovo bicchiere di the, fare richieste irricevibili, come poter usare la macchina per recuperare qualcosa al villaggio, o più ragionevoli e con nonchalance, come chiedere in prestito due spiccioli, lui che lo vedi ha il senso del denaro e di un business non così male, qui, ed invitarti ad una camminata nel deserto con i suoi amici che han portato un carico di turisti da Marrakech per dividere con te una bottiglia di coca cola. Forse é davvero così la cultura berbera, così il Marocco, semplicemente troppo diverso, troppo contrasto allo stesso tempo, perché lo possa comprendere appieno. Fiuta anche l'ansia, probabilmente, Mubarak, quando arriva e spara prezzi da capogiro per i suoi itinerari nel deserto. Mi opprime, dicendomi che non so contrattare, semplicemente perché ho chiuso la contrattazione prima ancora di iniziare, ma pecca anche di sicurezza, quando mi elenca prezzi che conosco già e che mi servono come termini di paragone. Contratto, come i berberi, proprio, di fronte a montagne di sabbia ed un altro bicchiere di the alla menta. Tanto perdo lo stesso, ma lameno perderò ad un prezzo che ritengo ragionevole. Mubarak é il padrone, il "pater familias" di questo gruppo di uomini che la sera stendono il tappeto per terra e si siedono davanti ad un tavolo ribassato a cenare. Mi siedo con loro, attingendo dallo stesso piatto, couscous nel primo, spaghetti col tonno nel secondo. Perché c'é comunque un'ospitalità innata, specie per il viaggiatore, per chi arriva sulla strada. E non potrebbe essere che così all'anticamera del deserto. Non ricordo i loro nomi, non tutti. Ci sono l'uomo venuto dal mare per fare le cure termali nella sabbia, il ragazzo che sorride sempre che guiderà il giorno dopo la carovana di dromedari lungo le dune, i responsabili della casa, che mi trattano con gentilezza ed amichevolezza. Tutti, sotto un cielo limpido, ancora una notte... io sono loro ospite e sono parte della casa. Devo ripercorrere all'indietro quei quaranta chilometri. Per ben due volte. Destinazione Rissani, dove c'é un bancomat e dove la domenica si tiene il mercato regionale. O forse sarebbe meglio dire i mercati. Perché i souq si dividono tra quello berbero e quello arabo, il mercato degli asini, quello dei cammelli e quello delle capre. Anche questo é deserto: una cittadine polverosa che esplode di gente un giorno alla settimana in un culmine di sapori, odori, versi, voci e colori. Fuori il sole che arroventa la strada, quasi brucia la polvere sollevata dagli zoccoli degli animali, dentro invece l'ombra, l'aria fresca ma allo stesso tempo densa ed il turbinio che sono i caravanserragli. Datteri, spezie, stoffe ed un'infinità di mani che si protendono per offrire, per chiedere, per comunicare. Anche questo é deserto. Quando Lahcen inizia a parlarmi, sulla strada del ritorno, mi viene in mente la scena de "Qualcuno volò sul nido del cuculo". Abbiamo fatto tutto il viaggio di andata in silenzio, perché dai suoi pochi gesti avevo intuito il mio compagno di viaggio non parlasse alcuna lingua europea. Ed invece Lahcen parla discretamente inglese. Sbotta, improvviso, sulla strada che torna indietro e per un attimo mi lascia senza parole. Dice che il capo non vuole si lascino contatti ai visitatori. Lui invece vuole parlare, mi stupisce un po' quando dice che sono un gentiluomo d'altri tempi, perché é la stessa cosa che mi ha detto una persona molto tempo fa, e mi racconta il suo lavoro. Perché lui viene proprio da quell'oasi che ho visitato sulla strada che mi ha portato fino qui, e lavora come insegnante in una scuola di un villaggio vicino che ho attraversato. E' come se in qualche modo mi raccontasse di qualcosa che conosco. Parla degli studenti che arrivano dai villaggi vicini, manciate di chilometri, eppure rimangono nella scuola tutta la settimana perché queste distanze possono essere enormi quando non ci sono mezzi. Lahcen é salito in macchina dalla casa in fretta e furia ed ha i pantaloni di lavoro: é questo il motivo per cui non ha voluto scendere una volta arrivati al paese, perché aveva i jeans sporchi di polvere. La semplice timidezza di quest'uomo che durante l'anno lavora in una scuola, duecento chilometri più in là da qualche parte, di quest'uomo che mi invita a trovarlo nella sua casa, nella sua terra se mai tornerò un altr'anno, mi colpisce e fa tenerezza.



Il guidatore della jeep si chiama Ahmed. Ma per me, quest'uomo che parla soltanto un poco francese e che in tutta la mattinata formula un paio di espressioni sarà "il filosofo". E' oggettivamente difficile comunicare con lui, ma capisce benissimo dove vorrei fermarmi per scattare qualche foto, ed anzi a volte mi anticipa pure, manovra, gira la macchina per parmettermi la visuale migliore. E' un uomo del deserto, Ahmed, per le prime due ore non beve un goccio d'acqua, e quando mi fa capire di essere abituato scherzando gli chiedo dove sia la gobba del dromedario. Io, da parte mia, strizzo gli occhi e lascio scorrere dal finestrino immagini impossibili, coe se potessi registrarle una per una. "Un paysage lunaire...". Sì, ha ragione lui, mentre mi indica il deserto nero che si vede dall'alto di una collina improvvisamente materializzatasi sotto le ruote. Come linee tracciate da penne precise, sinuose, sicure... come matite ed acquerelli che riempiono gli spazi rimasti. Ed un cielo limpido che acceca. Dall'alto di questo monticciolo di pietra, non si vede nient'altro che l'infinito, le dune ed il deserto sabbioso da cui siamo arrivati in una direzione, il confine algerino dall'altro, una formazione rocciosa in un'altra direzione ancora. Il vento sibila. con meno forza, io credo in apparenza, come se la luce del giorno ne coprisse il respiro. Respiro, certo... "C'est il paradis"... sarà veramente così, una sensazione come questa? Con gli occhi che non sono abbastanza, niente é abbastanza in realtà dinanzi ad un paesaggio del genere, dinanzi alla forza della terra portata all'ennesima potenza. Il mio amico filosofo é sceso di nuovo, sfiora le rocce con incredibile agilità ed esperienza. Nel giro di un paio di minuti ha raccolto più fossili di quanti ne troverei io in un paio d'ore. Me li porge. Dove ora sembra tutto morto un tempo c'era la vita. "La mort", dice, indicandomi i resti di un villaggio abbandonato e le rovine di una miniera. Restano qualche paranco arrugginito ed un paio di fenditure nel terreno che buie sembrano addentrarsi nel cuore della terra. Restano i pioli di scale malferme, loro, via d'accesso all'inferno. Come infernale doveva essere lavorare qui, estrarre pietra da pietra sotto un sole che non ammette pietà. Con occhio di lince, ancora lui, Ahmed, raccoglie resti di pietre preziose, piombo, ematite, quarzo, li spezza un sasso contro l'altro per ottenere polvere da passare sugli occhi, grani da raccogliere. Polvere, certo, tutto sembra ridursi a polvere. Anche le pietre nere che scricchiolano sotto le mie scarpe. Tutto sembra immobile, ma non é così. Ed un rettile dai colori sgargianti sfila via dentro la propria tana. La vita si nasconde, resiste, anche dove sembra impossibile. Dove non c'é niente, c'é una capanna di giunchi e paglia, ci sono una donna che cuoce il pane ed una al telaio che osservano i propri bambini. Nel nulla, con nulla in mano. "La vie c'est difficile". Non c'é molto dire.



Vorrei scrivere e scrivere sul deserto. Vorrei scrivere sul fatto di averlo visto e vissuto qualche giorno, o forse un viaggio intero, in realtà, culminato proprio in questo posto. Scriverei post e post interi. Sul nulla, perché é questo che si vede, veramente. Eppure difficilmente credo ci siano posti di tale ispirazione. Non trovo parole per descrivere, non avrei l'obbiettivo adatto per ritrarre, non so immaginare altro che i miei passi e le sensazioni sulla pelle, ai piedi sotto le suole delle scarpe, ai polmoni, gli occhi socchiusi, la vertigine che si prova guardando dall'alto. Ho voluto rallentare, allora, e fermarmi a quella che io vedo un po' come "familia", a questa "coorte" in mezzo alla sabbia. Dal mio arrivo incerto, dal calar della notte ed un tappeto steso sul pavimento verso il cielo alle mie camminate sulla sabbia nei paraggi. Sono contento di averlo potuto fare. Sono contento di essere arrivato qui, di essere salito fin quassu e da quassu aver cercato un bagliore che si perde all'infinito.




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