Mi aspettavo una città iper-tecnologica ed una società in perenne movimento, ed é ciò che ho trovato. Almeno, di primo impatto. Sono atterrato a Seoul già immaginandone il profilo segnato dai grattacieli vertiginosi, le miriadi di luci, nella notte, la metropolitana colma di persone con lo sguardo fisso su un telefonino. Mi aspettavo di osservare il sud-est asiatico nella sua declinazone più occidentale e moderna, quasi futuristica. L'ho fatto, negli interminabili viaggi passati in metropolitana, quasi spaventato da un ritmo che sembra renderci automi, macchine programmate capaci ovunque di isolarci nella folla. Li ho trovati divertenti, questi giorni passati nella capitale coreana, perché tutto era diverso, ma al tempo stesso non c'era pressione; malgrado i numeri da capogiro, non si sentiva l'oppressione della folla, e qualunque cosa semplicemente mi faceva sentire a mio agio. Mi sono divertito, perché sono partito all'ultimo istante, letteralmente, con poche idee in mente, ed ho scoperto un luogo affascinante, ricco di storia e, ancor più di quanto é noto a noi occidentali, in rapida evoluzione. In primavera, quando quell'equilibrio della natura e della terra, riflesso dell'universo, esprimeva il suo lato più variopinto ed affascinante. E se c'é qualcosa che mi dispiace é che, per certi motivi, alla fine non mi sia spinto molto più in là di Seoul, in questo Paese che dell'equilibrio dello spirito ha fatto la propria bandiera, alla scoperta di luoghi e città che, adesso che sono tornato, desidererei attraversare e scoprire.
Sono sceso dalla metropolitana, per riemergere al sole, le mura alle spalle ed una montagna che rapidamente sembrava sparire dalla città. Ho seguito quel canto rauco, sincopato ed indecifrabile che quasi sembrava infilarsi tra i ripidi sentieri e gli edifici arroccati. E mi sono lasciato alle spalle velocemente la città ipertecnologica, le folle in movimento come onde ed i ritmi frenetici, per entrare, anche solo sfiorandola, in una dimensione sconosciuta e misteriosa, dove uno sciamano coperto di maschere e vestiti si stagliava all'accesso. Sono queste variazioni, tra eremi solitari ed isole di pace inaspettata sparse per la città, in qualche modo a connettere questa realtà moderna ed avanzata, ad un sentire antico e radicato, che si manifesta nei piccoli gesti delle persone, per quanto sia capace di percepirli, del modo di porsi che rivela una visione del mondo basata su un equilibrio perfetto. Ed é un incontro che rimane affascinante e sfumato tra futuro e passato.
Grandi come città, inaccessibili come fortezze, enigmatici come complessi labirinti. Ho oltrepassato il fiume, un rivolo prosciugato su cui si inarcava in piccolo ponte di pietra, in segno di purificazione. Ad attendermi, di volta in volta, erano guardie reali schierate su un piazzale vuoto e silenzioso di pietra ruvida e bianca, progili di drago dipinti dai colori vivaci e stilizzati, intrichi di palazzi, edifici dal pavimento in legno rialzato e finestre aperte sui cortili.
Fruscio di vesti che sfiorano il terreno, come i passi silenziosi che trasportava il vento, perché da lontano si udissero solamente note accennate disperse nell'aria. Ho passato un altra porta, forse ancora più segreta ed inaccessibile. Per percorrere una via degli spiriti, magari, facendo però attenzione a camminare parallelo alla strada senza colpestarne la linea principale, o per accedere al luogo più riservato, un'isola dentro l'altra, labirinto di acqua, vegetazione scintillante e padiglioni isolati, forse illuminato soltanto da scie di lanterne flebili sospese sopra la testa, guidato soltanto da suoni lontani come eco indistinte.
Non so come descrivere le tante anime che ho assaportato di questa città nell'arco dei pochi giorni che avevo. Nel tempo e nei luoghi, era una variazione continua che oscillava tra passato, presente e futuro. Raccolgo immagini su immagini, e non so quale scegliere. Nel perdermi tra pagine di storia gloriose e luci incandescenti che esplodevano la notte, tra edifici giganti e futuristici, fino alle strade lavate di pioggia di una Chinatown rimasta vestigia del periodo coloniale, dalle piazze animate di aquiloni e movimenti lenti e coordinati, passando per silenziose sale da the con i loro tavolini a pochi centimetri da terra, a cui sedere su un pavimento di legno riscaldato accompagnati dal suono circolare dell'acqua di una fontana, gli abiti tradizionali che apparivano tra le strade strette in salita, fino agli stalli che traboccavano sulle strade colme di oggetti e di cibo. Urla, sapori, fiumi di voci mi investivano, ad ogni angolo che potessi cercare, ad ogni passo che potessi tentare. Anche quando, per un motivo o per l'altro, una di queste sensazioni venivano meno. Perché la cosa più inaspettata era di trovarmi spesso in angoli di pace assoluta, silenziosi a volte fino al mistero, sotto una coltre di rami intrecciati dei colori d'aprile, in giardini dell'universo interiore. E poi, con la stessa sensazione improvvisa, mi ritrovavo per strada e con quella sua vita continua che racchiude ed esalta si riaffermavano nella mia mente ancora una volta. Di nuovo, ho realizzato di trovarmi sulle strade d'Asia, anche se in una visione nuova come non avevo visto prima.
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