10 Novembre 2016
Sembra incredibile, ma passato un giorno, ho già attraversato una frontiera. Una di quelle visibili, in realtà, anche se sommersa dall'acqua lattiginosa di un fiume giunto al suo ultimo passo verso l'oceano. L'ho attraversata a fianco di uomini e donne che prendevano un traghetto come un altro, magari con una borsa della spesa od un trolley dalle dimensioni ridotte al seguito, come una routine che per me era una strada unica, marcata da timbri e contro-timbri tra le pagine del passaporto, un Paese piccolo e sconosciuto che per me si traduce in un sole stampato sulla targa ammaccata di un'auto in disuso, e quella sensazione del viaggio sul ponte di una nave.
Mi sono ritrovato all'ombra di un sicomoro, cercando dietro i riflessi abbaglianti il profilo di una metropoli. Nella calma di questo luogo, anche quello, oltre la vista, appare meno tumultuoso. Meno tumultuose le mie inquietudini, ora a contatto col mare, quando posso sentirne il rumore, assaggiarne l'aria trasportata dal vento che sbuffa ad intermittenza, come un sospiro, quasi, lo stesso che da il nome ad una stradina che dalle mura a strapiombo sale fino alla piazza, o come la brezza che spira tra i finestrini di un'auto lanciata in corsa, in una passato lontano ed indefinito, altro non resta che un profilo d'epoca, sia esso uno scheletro contro la luce del sole, od un contenitore di un giardino intero. Perché c'é un pizzico di artistico ed 'alternativo', in questa colonia portoghese silente sotto il sole cocente, dove le ore sembrano passare con una calma silenziosa. Ho camminato su e giù, su ciottoli bianchi come i calcinacci degli edifici. Ed era come se ogni cosa traspirasse quel fascino di un'epoca gloriosa andata, una ricchezza scintillante sparita chissà dove, che lascia dietro di sé un alone di trasandata poesia e la calma di un anziano che ha visto infiniti volti attraccare al porto, attraversare quella lingua di mare.
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