13-16 Novembre 2016
"Sotto l'aeroplano, le colline scavavano già il loro solco d'ombra nell'oro della sera. Le pianure si facevano luminose, ma di una inconsumabile luce: in quelle regioni esse non finiscono mai di restituire il loro oro, così come dopo l'inverno non finisce mai di restituire la loro neve."
Questo paesaggio è la mia porta d’ingresso, e anche se oggi è un inizio, è un po’ come se fossi arrivato, luogo raggiunto dopo tanto averlo immaginato. E un nome, Patagonia, su cui avevo concentrato tutto il suo fascino. E’ così. Non sarà un “volo di notte”, ma basta guardare dal finestrino per capire. Oppure, scendere, uscire dall’aeroporto e scoprire di essere stati ingannati dal sole, perché una raffica di vento ti investe. Basta un’occhiata, per capire dove nasca l’epica di un luogo, ed io lo osservo, correndo su una strada dritta senza fine: una distesa sconfinata, arida e brulla, coperta di piante basse e cespugliose che preservano questa terra da diventare deserto. E non c’è nulla, oltre un recinto, un animale strano che da solo appare da qualche parte, una linea costante interrotta raramente dal profilo di un piccolo edificio in rovina o un curioso agglomerato di oggetti dipinti di rosso, utensili e finanche elettrodomestici, nastri e gomme, forse segno votivo a qualche Dio dei viaggiatori.
La Festa del Cordero è la festa di Puerto Madryn. Ho camminato fino all’estremo nord della cotta’, lungo la costa, seguendo la linea del mare in bassa marea. Lontano, giaceva un cimitero delle navi e tutto non era altro che desolante silenzio. Oltre una collina, tra polvere e sole, bruciava la carne al fuoco e si riprendevano rodei, coltelli intagliati nell’osso erano stesi sul tavolo e giovani in maschera danzavano su note marcianti. Lentamente, con cadenza precisa, ed uno sguardo fisso. Era una festa di paese, quasi, e chissà quanta Puerto Madryn si trovava lì, come quei naviganti, giunti da lontano, un giorno, riuniti attorno al fuoco.
"...Magro, silenzioso, con grandi mani rosse, era vestito di un completo marrone cioccolata e non si levava mai il cappello. Aveva un coltello ricavato da una baionetta, con un pomolo di avorio giallastro. Stendeva ogni pecora su un ripiano e ne spogliava la carcassa finché rimaneva, rosa e rilucente e con le zampe all'aria, sulla bianca parte interna del vello. Poi faceva scorrere la punta del coltello sopra la pancia, dove la pelle è più tesa, e il sangue sgorgava caldo sulle sue mani. Ci provava gusto. Capivi che ci provava gusto dal modo in cui socchiudeva gli occhi, sporgendo il labbro inferiore e succhiando l'aria attraverso i denti. Tirò fuori gli intestini, tolse il fegato e i rognoni e buttò il resto ai cani. Portò le cinque carcasse vicino al fuoco e crocifisse ciascuna sulla sua croce di ferro, sistemata in pendenza verso la fiamma..."
Il deserto della Patagonia non è un deserto di sabbia o di ghiaia, ma una distesa di bassi rovi dalle foglie grigie, che quando sono schiacciate emanano un odore amaro. Diversamente dai deserti d'Arabia non ha prodotto nessun drammatico eccesso dello spirito, ma ha certamente un posto nella storia dell'esperienza umana. Darwin trovò le sue qualità negative irresistibili..."
Credo che in poche ore questo luogo mi abbia regalato tutti gli aspetti di quello che sarà il mio viaggio: un paesaggio affascinante nella sua monotona desolazione, una natura incontenibile, carne d’agnello stesa sul fuoco, gente solare e cordiale, di quella semplicità che innata si associa a chi vive lontano, sul filo di un deserto, relitti abbandonati a se stessi che come spettri al largo, non importa se essi siano soccombenti ad un’immane tragicità o ad una lenta incrollabile solitudine. Ma, soprattutto, incredibili cieli patagonici: fusioni indescrivibili di colori e di variazioni, minuto dopo minuto, che, specialmente verso sera, liberano una potenza ed un mondo di emozioni incontenibili.
Quando sale il vento non è uno scherzo. E questi giorni sono parte di quelli, e camminare diventa uno sforzo curioso tra scegliere se avvolgersi dentro un poncho e lasciare l’aria sibilare tutt’intorno, come se rimanessi richiuso in un mio piccolo riparo mobile, o sfidarlo, questo vento, e rimanerne storditi nel giro di pochi minuti. Come sorta dal nulla, Puerto Madryn mi è apparsa come una città di frontiera. Ma forse, tanto grande è questa terra, che sarà sempre così da ora in poi. Quando non esisteva, ed era non molto più di un secolo e mezzo fa, il Mimosa, un’imbarcazione colma di speranze e disperazione, come tante che attraversavano l’oceano, apparve in questa baia ed i suoi naviganti cercarono riparo presso le cave verso sud. Io, le osservo dall’alto, a strapiombo, avvolto nella mia tela anti-vento. E non saprei dire quale rumore, se il suono delle onde che si infrangono sotto di me, o quello sordo e persistente del vento, uniti al turbinio scuro e profondo delle acque, mi crei più vertigine in questo momento, e tanto mi risulta difficile immaginare uomini cercare di scolpire la pietra, cercare un riparo, senza cadere, e senza cedere alla natura.
"La bandera argentina con el dragon rojo en su centro, ondeaba en la colina que està sobre las cuevas. La habia izado Edwin Roberts en un mastil erigido en este punto para indicar el lugar donde donde desembarcar. Aunque muy singular, fue la primera bandera con los colores argentinos que flameò en Puerto Madryn"
Qui, o nelle vicinanze, una sera arrivo’ un aviatore. Una sera qualsiasi e comune, perché il pilota conosceva il luogo, fermata necessaria per rifornire nella sua lunga corsa tra nord e sud, sempre più oltre, fin dove si spingeva l’uomo. Un punto sulla mappa cui era abituato. E quando si fermava per rifornire, capitava che qualche famiglia del luogo lo invitasse a cena. Così nacque una leggenda: si dice che quella sera il pilota guardò fuori dalla finestra con la figlia del suo ospite. Guardava lontano, da questo curioso limbo di terra stretto dal mare, verso una piccola isola che dalla finestra pareva poco più di uno scoglio. La bambina puntò il dito verso di essa e descrisse allo stanco aviatore cosa vedeva: un enorme serpente che aveva appena inghiottito un elefante…
“Mostrai il mio capolavoro alle persone grandi, domandando se il disegno li spaventava. Ma mi risposero: “Spaventare? Perché mai, uno dovrebbe essere spaventato da un cappello?”. Il mio disegno non era il disegno di un cappello. [...]
[...] Fu così che a sei anni io rinunziai a quella che avrebbe potuto essere la mia gloriosa carriera di pittore. Il fallimento del mio disegno numero uno e del mio disegno numero due mi aveva disarmato. I grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano a spiegargli tutto ogni volta. Allora scelsi un’altra professione e imparai a pilotare gli aeroplani.”
Natura ed indigeni. Due parole che riassumono l’essenza di questo luogo. La prima, stupefacente e delicata, è quell’equilibrio precario che si riassume dentro una ratio che stabilisce non più di una pecora ogni cento ettari, o nel cartello posto all’inizio di un sentiero dove l’obbligo è quello di lasciare il passaggio ai pinguini. E’ un uovo, forse due, nascosto sotto il ventre di uno di loro, maschio o femmina, sotto un cespuglio di rovi. E per una volta, attorno a tutto questo, viene osservata una certa sacralità per la vita, per questo ecosistema che rimane in bilico. L’eco degli indigeni è una voce spenta nell’aria, un passato che non c’è e rimane scolpito in una pietra, o magari un luogo segnato da una frase affidata il vento. E’ una testimonianza perduta, quasi, che si fonde in quel rispetto per la natura o nel profilo di un animale che appare all’orizzonte, tra la polvere sollevata di una strada sterrata ed che io non ho mai visto prima di allora.
"Alguna vez el mismo sol que hoy miro, canelto' tu figura y tus mananas. Cuando eras uno, junto con el viento y era tuya esta tierra y sus entranas"
Uno spruzzo dal mare, gelida acqua sul viso. Siamo usciti in mare al limite della forza vento consentita, ed appena raggiunto lo scopo a timone non hanno aspettato altro che navigare a massima potenza verso il porto. Sono salito a prua, laddove ora rimane aggrappato un uomo dell’equipaggio. Da lì in equilibrio tra scossoni ed ondeggiamenti, ho guardato, anche solo un istante. Ed il tempo purtroppo non è favorevole, ma tant’è abbastanza per scorgere un profilo, due affiancati, uscire dall’acqua sbuffare, scomparire di nuovo. Quegli animali giganti che popolano le storie, per una volta sono comparsi, reali, anche se solo di sfuggita: e anche se può essere poco, agli occhi basta per sentire il profondo che è sotto la barca, sapere che sono qui, in un certo senso a contatto con me, un’imbarcazione di minuscoli uomini, rimane un’emozione di fronte alla vita.
Non ho molti nomi salvati nel taccuino di viaggio. Ma quello che più ricorderò sarà quello di Pablo, un personaggio buono che in due giorni mi ha guidato attorno alla sua terra. Lo scrivo perché di lui so poche cose, in realtà, ma la foto della figlia vicino al posto da guidatore, la sua disponibilità ad aiutarmi ed il suo amore per questo luogo, il suo parlarmi in spagnolo di animali, fabbriche e celebrazioni patagoniche, ed i suoi aneddoti in cui ha legato la propria giovinezza all’Italia, sono qualcosa di semplice ed allo stesso tempo infinitamente profondo. E soprattutto, segretamente, sono una sorta di benvenuto involontario al mio viaggio.
"Lessi i suoi formidabili libri di racconti e i suoi romanzi quando ero bambino, e dalla loro lettura nacque il desiderio di viaggiare, di essere una specie di nomade, il prurito alla pianta dei piedi che mi spinge a vedere che diavolo si nasconde dietro l'orizzonte, a sapere come vivono, sentono, amano, odiano, mangiano e bevono, le genti di altre terre."
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