19-20 Novembre 2016
"Sapevo che la frontiera era vicina. Un'altra frontiera, ma non la vedevo. L'unica cosa che interrompeva il monotono tramonto andino era il riflesso del sole su una struttura metallica..."
Patagonia è anche il nome di una nave. Un traghetto, per la precisione. Ma, come il nome che evoca, non uno qualsiasi. Il Patagonia fa la spola attraverso lo stretto di Magellano, laddove il nome fonde l’epico con l’energia delle onde che fanno danzare la piattaforma della nave. Se ovunque da queste parti il vento è un urlo continuo, qui con i bozzi sordi delle onde assume ancora più potenza.
Ho viaggiato per ore guardando oltre un finestrino. La Ruta, in qualche modo, è iniziata ieri, da quella radura silenziosa, ma è oggi, con le sue dodici ore, i controlli di frontiera sulla strada sterrata, il paesaggio piatto che prende consistenza. E’ un inizio, che scorre su quattro ruote, lascia pagine sfogliate, una dopo l’altra, e riflette il mio sguardo sul vetro, oltre il vetro. Mentre il passare delle ore, con quella linea che mi segue da fuori, mi lascia un pensiero di triste malinconia, senza ragione propria, sempre più appresso.
"...La superficie sembra una lamina di metallo, alla quale il sole che spunta sulle cordigliere e le nubi strappano riflessi argentati. Sul ponte di comando, il timoniere e due ufficiali scrutano attenti la superficie. Agli uomini di mare di queste regioni piacciono i fiordi con le onde. Nel movimento dell'acqua riconoscono i banchi di sabbia traditori e gli scogli affilati che si nascondono sotto la superficie..."
"...Rivali all'inizio, si accordarono poi per mettere insieme un impero di estancias, miniere di carbone, celle frigorifere, grandi magazzini, navi mercantili ed un reparto per il recupero delle navi e merci danneggiate in naufragio, operazione nel loro caso più simile ad un atto di pirateria che ad un recupero..."
Era un’entrata anonima in una via laterale. Ci sono giunto perché dall’altra parte, sulla via principale il ristorante dove ero entrato non aveva posto e mi hanno suggerito di venire qua. Ho aperto la porta ed ho trovato una taverna di porto, conosciuta dai cileni del luogo, con pezzi di imbarcazioni appese, brandelli di reti ed immagini di personaggi importanti da Punta Arenas e dintorni. Credo sia stata la cena più bella che abbia avuto. Porzioni abbondanti, birra spillata artigianale, una ragazza gentile a servirmi e le note cantate da un donnone alle mie spalle. Ho lasciato che la gioia e la semplicità del luogo, della gente, mi riscaldassero il cuore e mi accogliessero dopo un lungo viaggio. La luce filtrata del locale aggiungeva colore, riflettendo sui volti, fossero essi reali ed anonimi o quelli in foto su una parete che ripercorreva attraverso di essi un secolo e mezzo di storia, lotte politiche ed avventure dei mari, e modellava la musica.
Chissà se la frontiera era questa: le vie vuote, pezzi di molo interrotto, banchetti allestiti sulla piazza con lana di alpaca. So che queste poche ore sono come un balsamo, forti di quella sensazione di essere giunto a destinazione. Anche in mezzo a questa città di frontiera, dove tutto è silenzio surreale e relitti del passato: quelli fisici, delle imbarcazioni venute a disintegrarsi su queste rive, più in là, verso sud, lungo una spiaggia che diventava via via più ruvida e maledetta, e quelli scolpiti sulla pietra, di nomi di un secolo fa da regioni di mezza Europa. Questo deserto mi ha affascinato, più forte ed autentico di quanto visto finora, e più alla portata di quanto cercassi. Sì, forse quella frontiera scomparsa era oltre confine, spazzata dal vento certo, e ricca di un fascino povero colmo di autenticità.
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