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Immagine del redattoreoytis

Ruta 40


 


26-29 Novembre 2016


"... Strada dritta, grigia, polverosa, e senza traffico. Vento implacabile, che ti porta via. A volte senti un camion, sei sicuro che sia un camion, ma è solo il vento. O senti il rumore che fa il cambio quando ingrana la marcia più bassa, ma anche quello è il vento. A volte il vento da' l'impressione di un camion scarico che sobbalza su un ponte. Anche se un camion arrivasse alle tue spalle, non lo sentiresti..."


Posso lasciarmi alle spalle quanto fatto finora, ogni tratta spezzata del mio viaggio. Sento che ora, davvero, per qualche giorno saranno una denominazione ed un numero a tracciare la via. Ruta 40, Patagonia, verso nord: questa lunga linea tracciata sulla mappa che cavalcherò come parte di questo viaggio, come viatico del cuore, e come avventura tracciata oltre i riflessi di un finestrino. Lo affronterò tra spirali di polvere, ore interminabili, pagine di libri ed orari annotati su frammenti di carta. Frammenti saranno poi le immagini che porterò con me.



"...un uomo che cavalcava nella pampa del Castillo sorpassò quattro cavalieri, che si portavano appresso una fila di focosi cavalli. Erano tre gringos ed un peone cileno, armati di Winchester col calcio di legno. Uno di loro era una donna vestita da uomo..."


Laddove briganti in fuga incrociarono la strada, ancora adesso questo è un passaggio obbligato nell’immensità di un paesaggio che non lascia scampo nella sua espressiva monotonia, ed un rifugio comparso nel nulla rimane selvaggio e punta in ogni direzione. Da lì, allontanandosi da un fiume le cui acque turchesi scivolano dai ghiacciai andini verso una lunga via per l’oceano, una deviazione lungo una strada sterrata apre un cancello del tempo ed una finestra su tutto quanto di spettacolare si nasconde oltre la linea retta che fende la Pampa.



Qui è come scendere in un passato che sfugge alla nostra comprensione, quando questo paesaggio era tutt’altro e le forze della natura scavavano montagne e sommergevano foreste. Come cenere solidificata pronta a svanire al minimo tocco, queste pietre che sono tronchi, fossili, vita perduta trasformata in qualcos’altro, trasmettono un senso di estrema fragilità. Un po’ come la vita ancora nel presente, una lotta continua testimoniata dagli scheletri animali dispersi nel terreno, e le impronte impresse sul terreno argilloso. E sale forte e selvaggia quella sensazione di deserto, quel silenzio che si perde attraverso conformazioni rocciose che alternano pinnacoli a striature graffianti, e comignoli a perdita d’occhio: tutto rimane precario, come ogni passo su un terreno argilloso umido di pioggia, la terra che di sedimenta sotto le suole, ed un cielo minaccioso che mi sfiora soltanto, prima di proseguire verso sud.



In cammino. Contro il vento che mi sibila accanto, verso profili di montagna sempre più vertiginosi. Ho immerso le mani nell’acqua pura che scendeva da ghiacciaio e ne ho bevuto a piccoli sorsi. Perché l’acqua più di ogni altra cosa in queste situazioni mi fa sentire la forza della vita e la calma del mio cuore. Tra tutte, oggi sarà il percorso più lungo. Verso altre torri, verso un ghiacciaio che scende nell’acqua, plumbea ed immobile, nella sua conca nascosta da nude rocce, verso infine una volpe, che veloce tra quelle stesse rocce appare, scompare, e già fugge via. Sono arrivato, su questo costone che il vento spazza senza pietà, che mi fa mantenere una posizione obliqua lungo un cammino esposto, sempre più in alto, seguendo le rocce. E quasi invisibile, lontano, sopra di me scorgo l’ombra di un condor andino, un battito d’ali enorme ed irraggiungibile, che allarga il mio respiro all’eternità.


“…Amaro camminare, perché pesa il cammino sul cuore. Il vento freddo,

e la notte che giunge, e l'amarezza della distanza... Sul cammino bianco, alberi che nereggiano stecchiti;

sopra i monti lontani sangue ed oro...”

(Antonio Machado)



Ho ripreso la strada nella notte. Ed il bus procede insicuro su un terreno ruvido e smottato. Nella notte scorgo la polvere sollevata dal terreno, il susseguirsi dei paletti che demarca la Ruta, uno ogni venti metri, ed il profilo sinistro di un qualche edificio che in rovina sorge dal nulla. Ombre, spettri, rumori, pure il pianto di un bambino, in fondo al bus. E’ una notte senza luci attraverso un mondo surreale.


Surreale è l’alba, gelida, che mi vede giù sul ciglio di un marciapiede di una città deserta. Silenzio ancestrale, e le ossa che tremano. Ed io cerco riparo dietro un garage. Un paio d’ore interminabili: guardavo fuori ed osservavo il silenzio, attraverso quell’unica strada da nord a sud, contando i raggi di luce ed i chilometri attraverso la Patagonia.



Terra di uomini, terra di colori. Ad un certo punto ho pensato che non avrei visto un qualcos’altro di pari bellezza. Mi sbagliavo: abbiamo camminato in mezzo ad un deserto fatto di steppa, ed improvvisamente tra ali di cavallette in movimento si intravedevano colori vivaci. Rosso, giallo, terra bruciata. Qui, molto lontano, giunsero mani a graffiare la roccia, raccogliere un po’ di quei colori, e ripartire, verso sud. Verso una vallata nascosta, una ferita che spacca la roccia, e corre giù, in profondità, laddove l’acqua porta la vita e gli accecanti colori di una pietra arida si tramutano in verde sgargiante. Mi è tornato in mente un racconto di un possidente terriero trasformato in mostro dallo sventurato intervento di una natura feroce, un racconto letto durante uno di questi interminabili viaggi: è accaduto intravedendo i ruderi in legno di una estancia abbandonata vicino al greto del fiume. Ho osservato rose del deserto, anche se non so assolutamente di quali piante si trattasse: a me bastava che fossero lì e con la loro bellezza rimanessero in vita. E, sempre camminando, sono risalito lungo il costone del canyon, seguendo come uomini prima di me la traccia millenaria dei guanachi. Là, infine, in anfratti protetti dal vento, si imprimevano sulla roccia orme di mani, una sull’altra, intrise di quei stessi colori raccolti miglia più a nord. Pitture geometriche, scene di caccia gli uomini, i guanachi, un ciclo continuo, e, ancora, infinite mani, una sull’altra. Come a dire, “io esisto, io ho vissuto, ed appartengo a questa gente”, un alito di vento trasportato lungo la valle per migliaia di anni.



"...mentre l'autobus attraversava il deserto, guardavo assonnato i brandelli di nuvole d'argento che si spostavano in cielo, e il mare grigio-verde di sterpaglia spinosa sparsa sulle ondulazioni del terreno e la polvere bianca delle saline e, all'orizzonte, la terra ed il cielo che si fondevano, mescolando e annullando i loro colori..."


Ancora, una strada interminabile. Anche se, questa volta, lentamente, il paesaggio sta cambiando, ed io altrettanto lentamente, avverto il distacco. Non è ancora così, ma la Patagonia, per quello che risveglia e lascerà impresso questo nome, sta rimanendo indietro. Occhi riflessi da un finestrino sporco di polvere. Come in altri momenti passati su un bus, questi giorni, avverto un senso profondo ed inspiegabile di tristezza e malinconia, come se il paesaggio che mi scorre davanti amplificasse questi sentimenti, uniti ad un senso di solitudine, ed un’orma nel terreno che presto scomparirà.



“Lungo la nuda terra della strada sboccia l’ora fiorita, biancospino solingo, d’umile valle nella svolta ombrosa. oggi con voce tenue al cuore, e sulle labbra la parola interrotta e trepidante. Dormono i vecchi mari miei; si smorza il suono delle spume sopra la spiaggia sterile. Lontano va la bufera nella nube torva. Torna la pace in cielo; la brezza tutelare ancora aromi sparge sui campi, e nella benedetta solitudine appare la tua ombra.”

(Antonio Machado)



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