La città bianca è una piazza deserta alle cinque di mattina, le strade che si diramano perpendicolari ai sui lati, i portoni di legno dei conventi secolari serrati. La città bianca è la più bella del Perù, ancora silenziosa prima che ritorni in vita, mentre io, scendendo dal bus che attraversando il deserto una notte intera mi ha portato per la prima volta verso altitudini complicate, mi trovo perso in questo labirinto di aria gelida, sprazzi di sole e linee candide. Lo percorro, quasi vagabondando, assaporando la calma del primo mattino, quel lampo di luce calda che segue l’alba e che per qualche istante mi ripara dal freddo. Il passaggio verso le Ande inizia qui.
Colori, sgargianti. Non solo bianco. Tra i portoni dalle case coloniali si intravedono, inizialmente come fossero immagini impresse su carte, e quindi animate, in un movimento sempre più fitto. Poco a poco, seguendo le lancette dell’orologio. Fino a travolgermi, che si tratti di un vestito sgargiante, il profumo del pane caldo e leggermente dolciastro venduto ad ogni angolo della strada, i gioielli sacri della cattedrale, la baraonda di un mercato, o la parete di frutti dolci e sconosciuti dei banconi dei frullati. E’ un vortice che prende forma, e mi trascina, lungo quel labirinto che mi aveva accolto immobile all’alba e che adesso invece non accenna a rallentare. E, semplicemente, mi lascio trascinare in questo flusso di vita, investito da un linguaggio familiare anche se diverso dal mio, ammirando la cornice di edifici che richiamano ad un passato che lontanamente ha radici europee, e gli attori che popolano queste immagini, queste piazze, queste strade, che infondono il calore dell’America Latina.
Ho varcato un portone ed ho vagato per secoli. Fermo ad un tempo immobile, fissato nella tradizione e nel Credo. Oltre le mura, si disegnava un’altra città, dove ombre senza volto un tempo si muovevano alla luce fioca di una candela tremolante. Nel buio della sera, attraversare le porte del convento è stato ancora più toccante. Braci accese ardevano nelle stanze spoglie, e lunghi profili immobili si disegnavano lungo le pareti che tracciavano le strade si questa città. Silenziose e tranquille, come se quelle stesse mura avessero il potere di assorbire tutto ciò che vi gravitava all’esterno, in un balzo che non era soltanto spirituale ma anche fisico. Ho attraversato questo spazio stringendo gli occhi, via via che la luce diventava sempre più fioca, sprofondando in quello stesso silenzio misto di pace, sacralità e rigore. Figure immobili mi osservavano seminascosto, fossero esse immagini appese o occhi dietro una grata. Vagabondando, nuovamente, tra le pieghe della storia. Come una di quelle fiamme, ho tremato, lasciando che come una goccia d’acqua intrappolata tra i petali di una rosa, una lacrima silenziosa mi accarezzasse l’anima.
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