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Tutte le note di New York


 


Sono uscito per strada. Sembrava giorno. Tanto che ho pensato che non fosse così tardi. E invece, era un'illusione. Incredibile, con un sorriso. Tante sono le luci attorno a Times Square che, viste dall'alto, dalla cima dell'Empire State Building, creano un fascio che riesce a spiccare in un panorama che non é esattamente buio profondo, un bombardamento di pannelli mobili sopra la testa quando si cammina, da terra, al centro di questa congestione di sensazioni visive e sonore. Affollatissima in ogni momento, iperattiva, energia allo statto puro, per certi versi pacchiana, oversize, esagerata, non ha importanza: tutti i simboli di new York, dai taxi gialli ai grattacieli svettanti le pensiline d'ingresso ai teatri di Braodway si incontrano qui, tra ricorsi a foto storiche e cliche collettivi, su "una giungla d'asfalto dove si producono sogni". Sotto questa pioggia di luci, alla fine, mi sono trovato a vagare, tra spettacoli, incontri e semplici passi, quasi inevitabilmente, quasi ritrovandomi ogni volta in questo punto bizzarro e colmo di vita al limite della nevrosi.



Questo é un musical nella sua definizione più classica. Un musical dove "la città che non dorme mai mette in scena la città dell'amore", come ho letto non so dove. Questo é un musical vecchio stile, tradotto in film, navigato negli anni. La musica di George e Ira Gershwin é indiscutibile, e corona scene di ballo vero e proprio così come grandi numeri di spettacolo. Luci che si irradiano da dietro il palcoscenico, tra vetri e riflessi luminosi. E la storia scorre leggera, come l'ambientazione in una città che lontanamente, nella storia, esce da una guerra, come leggera é questa gioia di vivere che anima la trama, fa volare i personaggi su note danzanti, con brio, delicatezza e romanticismo. D'altri tempi.


"...It's plain to see We found, by finding each other The love we waited for


I'm yours, you're mine And in our hearts The happy ending starts..."



Le "Arabian Nights" sono le notti del deserto, spazzate da un di sabbiaquasi fosse magia ed una lampada favolosa. Sono le storie raccontate una per notte nell'alcova di un palazzo reale. Sono le notti di Aladdin, direttamente da uno dei cartoni Disney più di successo, almeno per quanto riguarda la mia generazione e la mia idea di cartone animato, con le sue musiche ed il suo genio. E' lui il vero protagonista di questa favola, personaggio dirompente, la cui voce rieccheggia, come un motivo, una volta uscito da teatro. E pure prima, a dire la verità, tanta era l'attesa che avevo creato per questa sera. Così, in bicicletta, canticchiavo il ritornallo della marcia di Agraba. Le notti d'Oriente sono un tappeto magico che fluttua tra le stelle, uno di quei passaggi che in un musical fanno sollevare un sussurro di meraviglia. Alla fine, forse tradito dalle aspettative e dal teatro gremito ed ammassato fino all'ultima fila di posti, nel resto qualcosa mancava, un pizzico di poesia in più, o quella patina da cartone animato, forse, perché fosse uno di quei sogni da Mille e una notte.


"...When the wind's from the east And the sun's from the west And the sand in the glass is right Come on down Stop on by Hop a carpet and fly To another Arabian night [...] Arabian nights 'Neath Arabian moons A fool off his guard Could fall and fall hard Out there on the dunes..."



Sono sceso lungo una scala stretta. Uno di quei luoghi un po' mitici cui uno non darebbe un soldo. E' una serata 'sofisticata' in un carto senso, ora che le luci rimangono soltanto lievemente soffuse e suona musica live, quelle note che non sai definire, non sai iscrivere, ed allora, come diceva una battuta in un film, non può essere altro che jazz. Ed allora mi godo questa serata newyorkese, sciogliendo melodie complicate che nascono forse lì sul momento, in un dialogo incontrollato di voci, strumenti diversi, dal timbro caldo e profondo, un po' gutturale, forse, in qualche momento, una musica senza fine, metamorfosi continua, che a tratti quasi mi porta indietro a quadri come ricordi, finché le luci rimarranno silenziose nel buio.



Sì, é domenica. Folate di vento gelido e cielo limpido, Harlem rimane avvolta in un deserto silenzioso costellato di disegni e colori sulle serrande abbassate. E' una veduta un po' diversa da quanto ci si potrebbe aspettare, ma in fondo qualcosa cambia anche qui. "Good morning! I'm going to sing today... look to the lady with curly hair!", muovendo con ironia le ciocche  sistemate sotto il cappellino. In uno di quegli angoli dove a poco a poco si anima la domenica: non una chiesa con una facciata distinguibile, ma l'entrata di un vecchio teatro. E già da oltre le mura arrivano le note di un canto gospel, con la voce che sale, piena, ondeggia come il volto di una cantante, del coro, dei fedeli. E sarà pur vero che queste funzioni sono interminabili, ben oltre i momenti di questi canti ricchi di passione e colori, ma aprono una finestra su un mondo che va oltre la musica, di una tradizione cristiana interpretata e vissuta i maniera molto diversa, con forte senso comunitario, aperto peraltro anche agli settatori occasionali, ed una fede che non é soltanto celebrazione, ma lotta per i diritti, storia degli ultimi duecento anni ed anima di un popolo traghettato qui dalla storia. E dalle persone che entravano e con un sorriso salutavano sono tornato a delle immagini raccolte con gli occhi in metropolitana, gesti semplici o intensi, altri di inaspettata generosità: sotto queste note idealmente le ho raccolte in un abbraccio comune.




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